Assomigliava davvero a Humphrey Bogart, con il colletto del cappotto alzato, la sigaretta eternamente in bocca, lo sguardo grave e un mezzo sorriso alle labbra: avresti giurato di averlo già incontrato, sì, in qualche film in bianco e nero degli Anni 50, a fianco di Jeanne Moreau colla stanchezza dell’anima negli occhi. Ha fatto impersonare Caligola da Gérard Philippe, e mandato in scena Maria Casarés abbigliata da pasionaria del terrorismo rivoluzionario, ha fatto gridare al miracolo con Lo straniero , e afferrato la gloria con La peste . Eppure non era questo che voleva: «La volgarità delle intelligenze, le vigliaccherie compiacenti» , il marchio di fabbrica della Parigi letteraria, gli davano «la nausea». Appunto.

Camus. Questo frutto spinoso nato cento anni fa nella terra arida, stenta, dura d’Algeria («il piccolo erg – la povertà estrema ed asciutta le tende nere dei nomadi, sulla terra secca e dura – ed io – che non posseggo nulla e non potrò mai possedere nulla, simile a loro…») nella Parigi del dopoguerra era il maschio avvolto di femmine e di successo: «Leccare la vita come zucchero d’orzo…». Sartre e la sua banda potevano ben pispolare la notte nelle cantine di Saint-Germain e imporre, di giorno, la polizia del loro pensiero unico allo sberrettante quartier generale del café Flore; neppure loro avevano potuto impedire a Camus di imporsi come un maestro.

E oggi? Già, già: Camus è «universale», tradotto e letto ovunque, persino Bush una volta lo ha citato. Ecco: è comodo, alla mano: pigiati dentro un solo Grande da Plèiade il sentimento tragico della vita, la necessità di forgiare la propria morale, la mistica del Mediterraneo e dell’Oriente, rivolta e accettazione, rovescio e diritto. Il giovane uomo nietzscheano che attraverso l’assurdo e la rivolta (merce sempre di buona domanda anche nei cataloghi editoriali) si arrampica fino a una filosofia della misura, apparentata alla antica nemesi greca. Scrittore perfetto per i garbi dei dettati, filosofo da liceali che non vogliono correre rischi al Bac, filosofo discount, moralista della Croce rossa. E ancora: nell’intimo democratico molle, sentimentale, perfino uno sgonnellatore di femmine. Nell’omaggio apparentemente universale quante spine acute, in Francia, mezzo secolo dopo quel 4 gennaio 1960 in cui morì in un incidente d’auto, da folgorante James Dean della letteratura.

Bisogna sveltamente aspirare l’ossigeno della saggezza di Finkielkraut per non dubitare: «Camus è consacrato da un’epoca che gli volta le spalle, il nostro tempo non ama che se stesso ed è se stesso che celebra quando crede di commemorare i grandi uomini». Meno male! C’è un antidoto a questa melassa che gli hanno steso sopra. Chi considera un merito non attirare rischi di attizzare l’ira e lo scandalo: su pena di morte, colonizzazione (lo accusarono essere traditore e colonialista, contemporaneamente!) stalinismo, Camus, sempre inclassificabile in famiglie ghenghe e parrocchie, un uomo in rivolta, eroismo che piace, ma anche ferito, umile, il che piace ancor di più perché innesca la compassione. Prendiamo, ad esempio, l ’a n t i c o l o n i a l i smo: il suo umanesimo stende un velo consensuale perfino sulla guerra di Algeria, un pied-noir che diventa figura di conciliazione, utilissimo. In quei deserti, dall’altra parte del mare, che nella sua penna si animava di colline odorose fiorite di tamerici e di assenzio, con le antiche colonne in rovina «colore dei pini», oggi infuriano profeti ben più spietati e letali che i nazionalisti di Ben Bella. Sì, gli anniversari sono sempre un guaio con Camus. Quest’anno una mostra a Aix, sotto il bel sole di Provenza che tanto amava, è già avvolta di polemiche tignose, dimissioni, licenziamenti. Nell’anniversario, tre anni fa, della morte fu Sarkozy, allora presidente, nel suo furore di assimilare epoche storie e grandi a suo uso e consumo, che cercò, con gran fracasso, di panteonizzarlo, sì, di tumularlo in questo santuario laico, labirinto oscuro e umido, da sempre teatro di inquietanti vai e vieni cimiteriali. Dove la Francia si dà battaglia, e si ricompone talvolta, a colpi di ossa cadaveri e tombe. Mossa forse definitiva per farne un edulcorato pascolo per citazioni, di marmorizzarlo: ah! il gusto insaziato e insaziabile della Francia per i funerali degli illustrissimi presi, in se stessi, come opere d’arte, da Napoleone a Hugo. Manovra fallita per il provvidenziale no di un figlio del marmorizzabile. E anche allora, nel fiume dei turiferari da anniversario gocciolarono rivoli di sodo veleno. A instillarlo è l’eterna Algeria, circonlocuzione complessa (dopo mezzo secolo!) di una Storia poco condivisa; e i rancori gauchistes, dei salottini apparecchiati per l’anatema. Non hanno ancora perdonato, allo scrittore, il rifiuto «di mettere tra la vita e l’uomo un volume del Capitale». Che eresia!

E se Camus fosse lì, appunto per ricordarci, instancabilmente e fastidiosamente, che più gli uomini cedono ai dogmatismi e più diventa loto necessario il distacco, il disinteresse di qualcuno? È ammirevole che abbia riflettuto sull’uomo e sulla sua condizione nei momenti più bui del secolo: i totalitarismi, la guerra, i sanguinosi sussulti finali del colonialismo. In fondo, come accadde a Montaigne, nelle guerre di religione. L’orrore e il sangue lo fortificavano nella sua missione di osservatore e di testimone. Era uno dei pochi attenti, in una Francia in preda al dubbio e alla follia. Senza pretendere niente altro che rappresentare e descrivere è proprio lui che ci forma, proponendoci una immagine esatta di noi. Anche grazie a lui siamo passati attraverso le maglie della rete che in tutte le epoche gettano su di noi i Piani, i Sistemi, le Rivoluzioni. A questi cacciatori pericolosi l’uomo qual è, l’uomo dello Straniero , l’uomo di Camus resterà sempre sconosciuto e straniero. «Ogni sforzo umano – disse – è relativo, noi crediamo appunto alle rivoluzioni relative». E può bastare questo per dar colore a un anniversario.

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