«I film che ho diretto erano liberissimi».

Vittorio Caprioli

Quest’anno ricorre il centenario della nascita di Vittorio Caprioli (15 agosto 1921), una di quelle figure che, pur rimanendo sempre ancorate alla seconda fila, hanno saputo animare il cinema italiano con grande vitalità e – soprattutto – libertà. Dopo il debutto teatrale con Strehler, Caprioli fonda la storica compagnia del Teatro dei Gobbi con Alberto Bonucci e Franca Valeri (sua moglie dal 1960 al 1974). Da lì, passando per il varietà, anche il debutto al cinema, prima con una lunghissima filmografia come caratterista (per registi come Risi, Bolognini, Bertolucci, Petri e Rossellini), poi come regista. Nel 2020 ricorreva il cinquantesimo anniversario dall’uscita in sala di uno dei suoi film più rappresentativi, Splendori e Miserie di Madame Royale, con Ugo Tognazzi nei panni di Alessio, corniciaio ed ex ballerino, in arte – per l’appunto – Madame Royale.

1969: negli Stati Uniti esce Staircase (Quei due) di Stanley Donen, con Rex Harrison e Richard Burton nei panni di una coppia omosessuale che finisce in tribunale per problemi di travestitismo. Il film è un flop, la critica lo boccia con l’accusa – tra le altre cose – di essere una commedia triste.

Dall’altro capo del mondo invece, in Giappone, il regista underground Toshio Matsumoto dirige Bara no Sōretsu (“Il funerale delle rose”). Riscoperto di recente da pubblico e critica, il film è la versione queer dell’Edipo Re. Amato anche da Kubrick, resta un esempio folgorante di cinema sperimentale, indipendente, sovversivo e visionario.

Intanto in Italia si conclude il processo a Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, accusato alla sua uscita in sala (nove anni prima) di oscenità.

1970: in Italia è il turno di Caprioli e del suo Splendori e Miserie di Madame Royale, un film che ha radici profondissime nella realtà dell’epoca, prima pellicola italiana con protagonista omosessuale (interpretato per di più da un divo sulla cresta dell’onda), osteggiata dalla critica tutta, da quella conservatrice a quella militante.

 

 

Nel volume Quelle come me (che prende il titolo dalla canzone dei titoli di coda del film, cantata da Dora Mori), edito da PM Edizioni, Andrea Meroni e Luca Locati Luciani indagano la genesi del film di Caprioli. Madame Royale ha difatti una storia articolata e con diverse zone d’ombra, che nel libro viene ricostruita attraverso un ampio ventaglio di documenti, interviste, testimonianze e articoli della stampa nazionale – analizzando al contempo il contesto socioculturale dell’epoca, in quel frangente a un punto di svolta.

In origine, pare che quella di Madame Royale fosse una casa di appuntamenti milanese per soli uomini, una storia salita agli onori della cronaca nel 1946, ma il personaggio e la trama del film prendono vita da altre esperienze, suggestioni e protagonisti, un lavoro nato anche dell’esplorazione della Roma notturna e “segreta” di quegli anni. Una Roma pigra, che Caprioli, con la complicità di Giuseppe Rotunno alla fotografia, ha messo in scena ispirandosi alle opere di Mafai: apparentemente placida e immobile, ma pervasa da un continuo brulichio, segreto, vitale e palpitante. Il regista, nuovamente, si dimostra un autore curioso, attratto da terreni inesplorati.

Centrale per la realizzazione della pellicola il coinvolgimento di Ugo Tognazzi, ovviamente, che prende parte al film nei panni del protagonista, Alessio, figura che il regista molto probabilmente aveva pensato per sé, ma che – per attirare il capitale necessario alla realizzazione del film – ha preferito affidare a un attore di richiamo. Legato al nome di Tognazzi c’è difatti quello di Ugo Santamaria, produttore (ma anche distributore ed esercente) che, dopo aver fatto i soldi con le commedie di serie B, si è lanciato con coraggio (incoscienza?) sul cinema d’autore. Nel 1969 Santamaria partecipa alla produzione di Z L’Orgia del potere, un azzardo che vince la Palma d’Oro e un Oscar. Poi produce Ludwig di Visconti, e lì gli va peggio. Per un salto nel buio come Splendori e miserie è l’uomo giusto; è in questa occasione, tra l’altro, che conosce lo sceneggiatore Enrico Medioli, che già aveva firmato Il Gattopardo e firmerà poi Ludwig. Al gruppo si aggiungono Bernardino Zapponi, sceneggiatore di fiducia per Fellini (ma anche Risi, Bolognini, Monicelli, Scola, Argento) e il circolo degli amici di Caprioli, professionisti e colleghi che si porta dietro dal tempo del Teatro dei Gobbi, tra cui Franca Valeri, sceneggiatrice in incognito.

 

 Il volume di Meroni e Locati Luciani ricostruisce attentamente la cronologia del casting: da come Caprioli avesse pensato inizialmente allo sceneggiatore Luciano Vincenzoni per il ruolo del Commissario, poi andato – complice la quota francese della produzione – a Maurice Ronet; fino al coinvolgimento dei Legnanesi, promossi all’attenzione di intellettuali e uomini di spettacolo da personaggi come Arbasino e Steno.  E ancora, la ricerca della giovane protagonista femminile, che, dopo una sostituzione in corso d’opera, ricade sull’esordiente Jenny Tamburi, scovata – ovviamente – al Piper. Un processo ci aiuta a capire il metodo di lavoro di Caprioli, più interessato ai comprimari (al contorno quindi, al contesto) che non ai protagonisti.

«Per quelle come me la notte ha mille se./ Si vive per un sì/ Ma puoi morire per un no»: il film mette in scena un mondo oscuro, segreto, costruito su linguaggi in codice – quello degli omosessuali, quello dei criminali –  dove il sesso, tra maschi di mondi diversi che parlano lingue diverse, diviene una sorta di lingua franca. I party di Madame Royale costituiscono un micromondo di evasione (prima ancora che di espressione e rappresentazione, valori che saranno propri del successivo movimento di liberazione omosessuale) con codici precisi, estetici e comportamentali. Per esempio, si parla in francese. «Il parle notre langue?» chiede Madame Royale in merito a un giovanotto con cui l’amica Bambola di Pechino (interpretata da Caprioli stesso) si è accompagnata a una delle feste. Ma anche chi non parla francese è il benvenuto: «Non, Madame, il est italien». Un modo per sottolineare che il ragazzo, «di Mestre, vicino a Venezia», non è omosessuale… Anche se, quando Madame gli chiede «Vous avez une gondole?», Bambola si affretta a far sapere: «Oui, long comme ça!». Insomma, ci siamo capiti.

 

Il film, complice anche il divieto ai minori di 18 anni, è un insuccesso. Nonostante non ci fosse nulla di realmente scabroso o di spinto (lessico, immagini, situazioni, tutto limato in fase di scrittura proprio per evitare problemi censori a cui Caprioli non era nuovo), già il solo tema non era accettabile: una decisione che ha stupito regista e produzione.  «Insomma, caro Caprioli, se lei avesse preso in giro, messo addirittura alla berlina un omosessuale io avrei capito, ma lei lo prende sul serio… Capirà, io questo non lo posso permettere», spiega il magistrato incaricato della Commissione di censura. «Alessio, il povero corniciaio, non rappresenta una persona, […] ma un tabù. […] Era un “diverso” che offende il comune senso del pudore e il moralismo dei benpensanti», racconta Virginia Antonioli, seconda moglie di Caprioli, nel suo libro Vittorio ed io.

Nonostante le rimostranze e i tentativi di Caprioli di far cambiare decisione alla Commissione, non c’è nulla da fare. Una lettera del Ministero del Turismo e dello Spettacolo conferma ufficialmente il divieto ai minori: «perché la vicenda si svolge esclusivamente in un ambiente di omosessuali e di travestiti, portata sullo schermo nei più minuti dettagli e con notevole insistenza e crudezza in modo da apparire controindicata in modo assoluto per la sensibilità e lo sviluppo dei predetti minori».

Oltre al visto della censura pesava (e in parte, cosa curiosa, pesa ancora adesso) la classificazione del Centro Cattolico Cinematografico che determina la possibile vita o meno delle pellicole nei cinema parrocchiali e nelle sale associate (ACEC, oggi quasi tutte quelle denominate come d’essai). Leoni al Sole (suo debutto dietro la macchina da presa, 1961) è bollato “E”, ovvero escluso (“gravemente immorale e nocivo per ogni pubblico”).

Parigi o cara (1962), film ormai cult con Franca Valeri nel ruolo della prostituta snob che sogna i lussi di Parigi (ma che finisce sposata a un pizzaiolo romano), è “S”, ovvero sconsigliato. Bollino “E” anche per Cuori Infranti (1963) e Scusi, facciamo l’amore? (1968). Insomma, niente film di Caprioli all’oratorio.

Scusi, facciamo l’amore?, in particolare, dimostra come Caprioli si muova in quegli anni con un certo anticipo verso tematiche ritenute ancora non accettabili, difficili: insidiose. Un anno prima dell’uscita di Un uomo da marciapiede (Midnight Cowboy, di John Schlesinger), Pierre Clementi, reduce dai successi con Buñuel, è un escort che su consiglio di un collega, per incrementare il fatturato, decide di rivolgersi al pubblico maschile: «Guarda che per voi ragazzi sono molto meglio gli uomini, sono più previdenti, più affettuosi».

La critica militante vede in Splendori e Miserie un’occasione mancata, in cui il finale tragico riporta alla “norma” la parabola del protagonista, debole, vessato e sconfitto: un lieto fine sarebbe stato di rottura, più sovversivo. La sceneggiatura però – così per come è stata pensata e realizzata – non punisce Alessio per la sua omosessualità, la sua non è una morte “morale”, è una morte drammaturgica (circolare e simmetrica rispetto al film) che anzi condanna il moralismo; è la clandestinità a mettere in moto una serie di dinamiche che lo portano all’autodistruzione.

Non c’è in lui l’ombra del rimorso “cattocatechista”, piuttosto un’amara autoironia alimentata sì, forse, da una scarsa autostima rispetto alla propria identità sessuale, ma compatibile rispetto agli orizzonti non tanto limitati quanto piuttosto inesistenti della società a lui coeva. Ed è questo il motivo delle stroncature della critica conservatrice – gli anni ‘60 sono il decennio in cui la stampa di destra, da Il Borghese a Lo Specchio, accusano Visconti di essere promotore di una «progressiva omosessualizzazione del pubblico italiano».

 

Quella di Caprioli per i finali tragici è una predilezione, come dimostra la sua filmografia, che, seppur esigua, è rappresentativa di un cinema vitale, liberissimo e senza sconti (quindi incompreso): a conti fatti, l’unico cinema camp in Italia. «Come sempre io parto con le migliori intenzioni di far ridere, poi non ci riesco: non c’è mai un lieto fine nelle mie storie!». È amaro il finale di Parigi o cara, che vede la sua protagonista perfettina rinunciare alle proprie aspirazioni, l’escort di Scusi, facciamo l’amore? si rassegna al suo ruolo di mantenuto d’alto bordo con un ricco cliente dopo una cocente delusione amorosa.

Eppure, nonostante il fiasco, Splendori e Miserie lascia un segno, conquistandosi un posto nell’immaginario. “Madame Royale made in USA”: così Piero Perona su “La Stampa” dell’11 dicembre 1979 per l’uscita di Festa per il compleanno del caro amico Harold (1970).

Il primato di Madame Royale è fondamentale per la cultura LGBTQI+ italiana, e questo gli deve essere riconosciuto, perché, anche se non rappresenta con il suo protagonista il prototipo dell’attivista, è il primo che corre il rischio di mettere in scena con la dignità del dramma un panorama fino a quel momento invisibile. I mass media, da sempre, segnano il confine tra cosa è legittimo e cosa non lo è: ciò che appare c’è, può essere ammirato, denigrato o discusso, ma esiste e ha in sé la dignità di ciò che può apparire.

«Ma non le sembra, Caprioli, tema, più che scabroso, inaccessibile?», chiede Sergio Surchi, su “La Nazione”. «Direi un tema delicato», risponde Caprioli: «A me interessa indagare la malinconia, la solitudine».

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