A novantaquattro anni compiuti, Michel Piccoli ha preso congedo. Definitivamente. L’ha fatto in punta di piedi, senza fare rumore: la sua morte, arrivata il 12 maggio in seguito a un ictus che l’aveva colto nella sua casa a Saint-Philbert-sur-Risle, in Normandia, è stata annunciata alla stampa soltanto il 18 maggio, a esequie avvenute.

Davanti a un’uscita di scena tanto discreta, in ordine sparso ne vengono in mente altre. Piccoli è forse stato l’interprete dei congedi? Quello di Ritorno a casa, forse il più bello di tutti; quello onirico di Dillinger è morto; quello di La grande abbuffata (il più eccessivo, nella sua iperbolica, flatulenta trivialità); fino all’ultimo – il più emblematico e al tempo stesso, per certi aspetti, più privato – di Habemus papam, con il pontefice designato che compie il proprio personalissimo “gran rifiuto”, forse cercando di riacciuffare un’antica ambizione attoriale frustrata, ma soprattutto dichiarando con coraggio la propria inadeguatezza davanti al mondo intero.

 

"Habemus papam" (2011)

“Habemus papam” (2011)

 

“Purtroppo ho capito di non essere in grado di sostenere il ruolo che mi è stato affidato”, dice il “suo” papa nel discorso che chiude il film di Moretti. Ma Piccoli è stato un interprete tutt’altro che inadeguato, e non solo per la durata eccezionale della sua carriera (settant’anni, dal 1945 al 2015, stando a quello che dice la voce francese di Wikipedia). In uno dei molti necrologi televisivi che mi è capitato di ascoltare, si diceva che Piccoli, con la sua faccia, fosse l’immagine dell’uomo comune. Siamo sicuri che sia davvero così? Sono davvero così comuni personaggi come il felpato Henri Husson del buñueliano Bella di giorno, il manovale Themroc del film omonimo di Claude Faraldo, tutto strilla e grugniti, il giudice Ponticelli di Salto nel vuoto o il pittore Frenhofer di La bella scontrosa? “Un personaggio di L’anno scorso a Marienbad che vorrebbe recitare la parte di un personaggio di Rio Bravo”: così, con l’icastica precisione dell’aforista, Jean-Luc Godard descriveva il Paul Javal interpretato da Piccoli in Il disprezzo. Definizione suggestiva, e forse anche azzeccata.

Era ancora attivo, a dispetto dell’età. Anche se ormai preferiva concedersi cammei nei film di qualche amico “ex giovane”, come Leos Carax (in Holy Motors è l’uomo con la voglia di vino sulla faccia), ché i suoi amici più vecchi se n’erano andati tutti prima di lui: Buñuel, Ferreri, Sautet, de Oliveira, Rivette… Per non parlare degli attori: Tognazzi, Mastroianni, Noiret… Piccoli esorcizzava, scherzandoci su. Qualcuno di noi lo ricorda ancora nel 2014 alla Mostra del cinema di Venezia, chiamato a presentare il restauro di L’udienza, in cui ricopriva un ruolo di contorno (altra sua specialità, per inciso: andate a rivedere il suo Sade in La via lattea di Buñuel). I segni dell’età erano evidenti, la figura ricurva, la memoria ogni tanto sembrava lì lì per tradirlo. Ma lo spirito c’era per intero, con un pizzico di chiassosa complicità con il pubblico in sala: “Tognazzi è morto!… Marcello [Mastroianni] è morto!… Fellini è morto!”; e poi, dopo una lunga pausa: “Io sono vivànte. Sono molto contento”.

“Monumento del cinema francese”, hanno titolato i quotidiani d’Oltralpe; “mostro sacro”, hanno fatto eco le testate italiane. Come per Kirk Douglas e Max von Sydow, giusto per citare altri due magnifici vegliardi scomparsi in questi mesi di paura e di confinamento forzato, non era importante sapere se lavorassero ancora oppure no. Ci bastava sapere che erano ancora lì, inamovibili come punti di riferimento, figure che ci mettevano in comunicazione con una certa idea di cinema e di attore: la Golden Age di Hollywood (Douglas) e l’età d’oro del cinema europeo cosiddetto “d’autore” (von Sydow, Piccoli), che poi era anche un cinema d’attori. Rispetto agli altri due, Piccoli non ha incarnato il ribelle indomito o l’adorabile canaglia, né ha sfidato la morte e il demonio in persona. Se è vero che, come scriveva Kafka, non c’è differenza fra chi ha combattuto la propria battaglia a Salamina e chi la combatte ogni giorno in sala da pranzo, si può ben dire che il valore dei personaggi di Piccoli, che per Ferreri ha combattuto (perdendole) la battaglia contro la perniciosa abulia del quotidiano in Dillinger, quella contro il godimento coatto nella Grande abbuffata e persino, nei panni di Buffalo Bill, la battaglia di Little Bighorn (genialmente calata nella grande buca delle Halles parigine) in Non toccare la donna bianca, non sia stato inferiore a quello dei tough guys di Douglas e dei severi eroi nordici di von Sydow.

Su quel volto e quel corpo apparentemente così anonimi, molti grandi registi hanno potuto proiettare qualcosa di se stessi: Buñuel una certa grazia seduttrice, Ferreri la golosità non priva di risvolti soavemente crudeli, de Oliveira la propria meditazione su vita e mestiere, Moretti il proprio senso d’inadeguatezza. E tuttavia, davanti a ciascuno di questi film, si vede in primo luogo lui, Piccoli, il suo lavoro d’interprete, minuzioso e al tempo stesso leggerissimo. Si potrebbe quasi dire che ciascun film con Piccoli sia al tempo stesso un documentario su Piccoli. È una recitazione che non lascia spazio a virtuosismi, costruita con pazienza artigianale, un pezzo alla volta. Sembra di vedere al lavoro un corniciaio, un ebanista, un incisore. Basta vedere, nel memorabile assolo di Dillinger, il modo con cui Piccoli “riempie” l’inquadratura. Gesti minimi e uso parco della propria fisicità: la preparazione della cena, la rivoltella smontata e rimontata, la seduzione della cameriera, i giochi mimici con i filmini domestici e con le ombre…

Le prove per de Oliveira (Ritorno a casa, 2001) e Moretti (Habemus papam, 2011) accentuano ancor di più quest’impressione, e non solo perché pongono al centro il mestiere d’attore. Nel primo, che si apre su una rappresentazione di Il re muore di Ionesco e si chiude sul set di un film tratto da Ulisse di Joyce, de Oliveira piazza la macchina da presa a media distanza e filma il suo protagonista come se stesse filmando un uccello raro senza disturbarlo: rapido e sapido, ha detto qualcuno. Nel secondo – per certi versi un remake inconfessato del primo – a Piccoli basta un nonnulla (un saluto accennato, quasi alla Stan Laurel, da dietro una siepe, il sorriso accennato, da Gatto del Cheshire) per definire le qualità del personaggio: la ritrosia, il candore, un certo infantilismo di fondo. Il film potrà anche traballare, ma lui fa spettacolo a sé.

Sembra che Piccoli odiasse parlare della morte, soprattutto quella dei suoi amici. Malgrado l’occasione, anch’io ho cercato di parlarne il meno possibile. A questo proposito, ho ritrovato una sua bellissima testimonianza su Buñuel, “meticcio grande e superbo”, scritta per un convegno in occasione del centenario della nascita: “Un giorno uno dei nostri amici comuni, il poeta André de Richaud, che ammiravamo, muore. […] A Buñuel vivo chiedo che parli alla radio del nostro amico morto. E lui mi risponde: ‘Non parlo mai degli amici morti. Do loro le stelle, come per i ristoranti: cinque stelle a Sadoul, tre stelle a de Richaud’. Rido felice delle parole di Buñuel. […] Quante stelle per don Luis? Si direbbe il titolo di un gioco di società. La società di don Luis è un firmamento”.

Anche quella di Monsieur Piccoli, direi.

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