Non ricordo più dov’ero, ma mi sembra di ricordare una grande strada, via Ugo Bassi forse, dove sporgeva una cabina telefonica rossa sul marciapiede più ampio che annunciava la piazza. C’era fumo di lacrimogeni da tutte le parti, pezzi di bottiglia anneriti dalle fiamme, relitti di candelotti lacrimogeni, scie di vetrine rotte. Però ricordo esattamente che quando chiamai mia madre ero perfettamente consapevole che in televisione si stava parlando di quel che era successo a Bologna. “Tutto bene mamma” le dissi, e ammisi che sì, anch’io avevo sentito dei disordini ma i giornalisti esageravano come sempre. In effetti c’era stato un morto, ammisi malvolentieri. Poi con i guanti e il passamontagna ben infilati in tasca saltai sul primo bus e me ne andai a casa. Qualcuno dirà: se sapevi che tua madre era così preoccupata perché non l’hai chiamata prima? Posso rispondere serenamente che non mi era stato possibile, visto che nell’assemblea generale seguita all’uccisione di Francesco Lo Russo qualcuno mi aveva proposto come responsabile del servizio d’ordine per la manifestazione del pomeriggio e insieme a quindici, ventimila persone avevo fatto a botte con la città intera.

Quella sera il mio pensiero principale, vista la responsabilità non proprio desiderata che avevo ricevuto, era questo: sto tornando a casa e non ci sono stati altri morti. Lo stesso pensiero che avevo avuto quando il corteo si era mosso da via Zamboni verso le torri. Nessuno dei singoli episodi sovrastava gli altri. Mi avevano anche sparato, ma volutamente tenendosi alti, credo, per non colpirmi. Avevo poco più di vent’anni, l’età immortale. Ero stato leale con i miei compagni, avevo detto di lasciare l’università a piccoli gruppi e senza portare niente che facesse pensare agli scontri. Che altro potevo fare?

Quella notte la passai da solo, leggendo uno degli ultimi volumi della Recherche fino all’alba. Non volevo pensare a quello che era successo. Dal giorno dopo dovetti riprendere a pensarci: durante la notte centinaia di ragazzi erano stati arrestati e gli avvocati stavano impazzendo. Ci fu anche una delirante manifestazione a Roma e la metà dei ragazzi che erano con me avevano il braccio al collo. Iniziò un periodo pesante. Chi mi incontrava mi guardava storcendo la bocca e mi chiedeva: ma tu dormi a casa? Così entrai in una sorta di latitanza bianca. Ogni sera dormivo in una casa di ragazzi legati al movimento ma non troppo noti. Durante il giorno mi occupavo di concerti per raccogliere denaro, il minimo indispensabile per le carte bollate di centinaia di ragazzi, molti dei quali si erano macchiati del delitto di possedere due o tre brutte tazzine di porcellana di un noto ristorante.

 

Qualcuno si era portato a casa, facendola rotolare sui marciapiedi, una forma di parmigiano. Insieme a Palandri, Rovelli e Torrealta mettemmo insieme un libro fotografico per Bertani, che raccoglieva foglietti vaganti e registrazioni delle trasmissioni di radio Alice. Le foto erano tutte di Enrico Scuro, l’unico autorizzato a farne durante i cortei. Il libro andò bene e fu più volte ristampato ma non sapevamo che soltanto la fortuna ci avrebbe evitato quattro anni di prigione per le denunce che piovvero, cancellati in extremis da una stiracchiata amnistia. Una notte, distrutto da queste attività, dissi a una ragazza romagnola che mi trattava come un perseguitato politico che in realtà io ero soltanto un aspirante scrittore, e quando sarebbero usciti di prigione tutti i ragazzi dei quali mi consideravo responsabile avrei smesso di occuparmi attivamente di politica. E così feci, senza alcun rimpianto. Conservando molti ottimi rapporti ma nessuna complicità corporativa. Né io né altri in qualche modo più noti (da Mirco a Matteo, da Claudiona a Bifo) abbiamo avuto vantaggi di alcun tipo, anzi abbiamo avuto parecchi guai, dei quali non ci siamo troppo lagnati. Alla fine ho un ricordo affettuoso dei miei vent’anni un po’ speciali, e non mi sono mai vergognato di quello che ho fatto, né delle persone che ho frequentato. In un rapporto poliziesco che mi era in parte pervenuto si segnalavano i ripetuti incontri che avevo con tale Gianni Celati, che temo subì anche un controllo telefonico, del quale mi scuso.

Non so perché ho iniziato a scrivere parlando proprio del giorno peggiore, l’11 marzo, il giorno che in fondo segna la chiusura di un periodo e non lo riassume affatto nei suoi contenuti, vaghi, giovanili, sognanti e contraddittori fin che si vuole.

Finiva un periodo ma non ne cominciava un altro, l’unica esperienza collettiva della mia vita si stava frantumando davanti ai miei occhi. Gli elementi di novità erano mescolati a frammenti mitologici del passato, le barricate e le molotov anche. Ricordo che definivo un po’ altezzosamente i neoterroristi come cadaveri staliniani. I partiti, il rettore, le autorità, ci facevano ridere per il loro linguaggio e per i loro modi: parlavano continuamente delle famose riforme, e noi ridevamo di cuore. Sono convinto che quelle risate abbiano causato ferite più profonde delle nostre barricate. Lentamente cominciavo a capire che niente e nessuno avrebbe potuto rappresentarmi interamente e che andare avanti per la mia strada mi avrebbe fatto perdere ogni residua sicurezza e presagivo la mia solitudine, forse anche l’inevitabile fine della giovinezza. Cercherò di rappresentare questo periodo buio in poche scene. A un certo punto ricevetti una visita: un amico genovese e uno francese, con i quali qualche tempo prima avevo viaggiato e parlato liberamente e a lungo.

Il francese, Yves, era appena tornato dal Canada, dove aveva fatto il taglialegna, il genovese, Glauco, stava cercando un lavoro qualsiasi, ma era un ex seminarista in quel momento sprofondato in Nietzsche. Li incontrai di nascosto, perché avevo o credevo di avere problemi con la polizia. Ero affranto, depresso, in crisi nera. Glauco e Yves, con affetto devo dire, disapprovarono il mio impegno. Non ne valeva la pena perché si trattava soltanto di una fiammata illusoria, di un fenomeno giovanile che nessuno prendeva troppo sul serio. In fondo quel che pensava mio padre carabiniere, e quel che pensavano molti suoi colleghi. Mi parlarono di una sorta di coazione a ripetere, con toni lontani da qualunque influsso contemporaneo, di girovaghi solitari ma non sbandati, pronti a mescolarsi saltuariamente con altri simili a loro che però non li avrebbero mai rappresentati. Una strana saggezza, a pensarci adesso. Con il passare dei mesi i miei legami si sciolsero. Continuavo a frequentare pochissimi amici. Soprattutto Roberto Bergamini, l’astrofisico, e Claudia Degli Esposti detta Claudiona, quasi una sorella per me. Mi laureai e mi trovai ancora più sbandato. Il fatto di aver letto più di altri peggiorava il mio umore, mi faceva sentire lacerato, oscillavo dallo Zibaldone alla Storia, dalle poesie di Milo De Angelis alla psicoanalisi. Conoscevo abbastanza bene la storia contemporanea (di Russia, Germania, Spagna e Francia, soprattutto), conoscevo i campi di sterminio e conoscevo i gulag.

Avevo letto e in parte riletto Proust e Kafka, restando segnato soprattutto da quest’ultimo. Ma nello stesso tempo restavo infuriato con un mondo che mi sembrava mediocre e immutabile, come mi sembra ancora adesso in verità. Mediocrità che naturalmente riguardava anche a me, per quanto cercassi di ribellarmi. Trascurai qualunque prospettiva accademica e andai a lavorare alle poste come trimestrale. L’esperienza del movimento era stata per me anche leggerezza, allegria. Uscivo di casa il pomeriggio con lo spazzolino da denti in tasca perché non sapevo dove e con chi avrei dormito. Le lunghe notti di discussioni infinite. Le riviste. La radio. La volta che il mio amico Gibì finì in galera e scrisse senza scomporsi: “Le circostanze della vita mi hanno condotto in questo luogo ameno, il carcere…”. I gruppi di ragazzi veramente straccioni trasformati in damerini per andare a mangiare nei ristoranti migliori. Le case collettive di via Begatto. Freak Antoni, Claudio Lolli. Di tutto questo piccolo mondo (che non pretendeva di mettersi alla guida di nessuno) conservo un ricordo intatto, affettuoso e amichevole. Ho rinunciato da decenni a cercare di raccontare le specificità del movimento bolognese.

Che ancora oggi, in molti articoli sul quarantennale, viene associato a derive militariste che non originarono affatto da quell’esperienza. I dirigenti naturali del movimento (che in realtà non aveva dei veri leader) hanno proseguito le loro vite con dignità e nessuno di loro ha fatto carriera politica, anche se qualche poltrona fu offerta ad alcuni di noi. Mirco Pieralisi, forse il più noto, dopo la laurea in scienze politiche prese il diploma di maestro elementare e divenne un ottimo maestro. Io scrissi il mio primo racconto, che dimenticai in via Begatto e che fu pubblicato per caso anni dopo. Si intitolava Casa di nessuno, ma siccome non c’era firma dell’autore fu necessaria una piccola ricerca per trovarmi. Ero in altre faccende affaccendato. I mesi difficili avevano presentato il loro conto e svenivo continuamente, cioè mi girava la testa e dovevo sedermi per terra. Prima nei luoghi affollati, nei cinema e nei treni, poi anche al mare, tanto che Claudiona dovette letteralmente salvarmi la vita tenendomi la testa fuori dall’acqua e portandomi lentamente a riva. Dovetti curarmi, per un anno o due. Tutte le paure che non avevo provato quando avrei dovuto rispuntavano fuori e mi terrorizzavano.

Non dovevo salire su quel tetto, non dovevo scendere per la grondaia, non dovevo infilarmi proprio in quel vicolo pieno di gente, non dovevo… L’elenco era lungo, lunghissimo. In molti incubi venivo inseguito e mi sparavano, e le pietre delle case schizzavano via. Banalmente: il coraggio era stato soltanto incoscienza. Mio padre era comandante e io una sorta di imbarazzante replica. Ero stato eletto anche per questa mia freddezza nelle situazioni critiche, ma non era coraggio il mio, in fondo mi sentivo invisibile, ero soltanto un osservatore. Anche in questo sono rimasto lo stesso, e del resto neppure il mio paese è cambiato, è soltanto sempre più povero. Ma come mi aveva detto Yves, la politica doveva “essere più piccola” nella mia vita. Con lo stesso scetticismo aveva visto smontare le barricate sotto casa sua a Parigi quando era bambino. Yves parlava poco, diceva solo l’essenziale. Le cose cambiano perché devono cambiare, mi aveva detto riassumendo tutta la questione. Il mio retour à la normale era appena cominciato.

 

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