Dimenticato a lungo muore a 90 anni l’autore di “Se sei vivo spara” e “La morte ha fatto l’uovo”, rivisitazioni pop del western e del thriller. Partigiano, attore, regista, produttore, viaggiatore e scrittore, amato da Tarantino e Cox era stato omaggiato a Venezia nel 2007
Tre film “estremi”, fuori dal cinema ufficiale, scritti e realizzati tra il 1967 e il 1972, come colte elaborazioni pop e kitsch sui generi classici. Prima alcuni documentari. Dopo qualche lavoro per la televisione, molti no per sceneggiature considerate troppo radicali e una recente serie di corti “underground”. Ma la carriera di Giulio Questi, il Don Giulio in La Dolce Vita felliniana, morto ieri a 90 anni, non si può raccontare solo a partire dal cinema, e da quel trittico magico, realizzato in anni sessantottini dalla ditta Jules et Kim, cioè assieme all’amico e collaboratore Kim Arcalli: il western Se sei vivo spara, il fantasy antropologico-psicoanalitico Arcana e il thriller La morte ha fatto l’uovo.
Nelle sue memorie, appena pubblicate da Rubattino, Se non ricordo male – Frammenti autobiografici raccolti da Domenico Monetti e Luca Pallanch, infatti Questi si racconta in breve: “Ho fatto il partigiano nelle valli bergamasche, ho preparato carte d’identità false per gli ebrei, ho venduto armi, ho bocciato le poesie di un giovane Pasolini, ho fatto da guida a Le Corbusier, ho incontrato Orson Welles, ho diviso la povertà con Marco Ferreri e i ricordi di guerra con Fenoglio, sono stato aiuto regista di Zurlini, Ettore Giannini e Rosi, ho lavorato nella famosa Lux Film di Gualino e Gatti, ho bocciato i provini della Loren e della Koscina.
Ero il pupillo di Vittorini, pranzavo con Ferruccio Parri, Gassman e Rossellini, lavoravo di nascosto assieme ad Antonioni. Ho fatto coppia con il geniale Kim Arcalli, ho diretto Tomas Milian, Jean-Louis Trintignant, Gina Lollobrigida, Lucia Bosè, Tina Aumont… Sono scappato dall’Italia e ho vissuto nell’Isola di Baru, in Colombia, fraternizzando con Gabriel García Márquez… Ho girato il mondo con il folle produttore Daniele Senatore: abbiamo tirato coca nel bagno di Richard Burton, dormito nel letto della Loren a Central Park, aperto uffici a New York, Los Angeles e Cartagena… Un giorno mi sono ritirato in casa e ho cominciato a girare film da solo, con la videocamera, per la fantomatica casa di produzione Solipso Film…”.
La vita, da cambiare radicalmente, più che il cinema, era importante per l’anarchico Questi. Infatti assieme al compagno d’avventure Arcalli, morto prematuramente, elaborò un cinema provocatorio, personale e abbastanza isolato, malvisto dalla critica e un po’ temuto dai produttori (tranne da Moris Ergas, che li affiancò all’inizio, prima di fallire). Fare un giallo con una storia di polli, inserirvi la Lollobrigida come star e un compositore post weberniano come Bruno Maderna al soundtrack era già una provocazione più che eretica. Il montaggio poi era fiammeggiante, fumettistico, a incastri, un puzzle che permetteva allo spettatore attento di giocare con i vari piani narrativi, sogno/realtà, passato/futuro, narcosi/allucinazione… “Jules et Kim” composero per Tomas Milian il ruolo del buon peone in lotta con i potenti in un western folle e barrocco, con una partitura jazz di Ivan Vandor sconcertante.
Se sei vivo spara si apre su un campo di morti, dove l’eroe, Milian, verrà resuscitato da due sciamani indiani per narrare cosa ha visto nell’altro mondo, e terminerà con il cattivo ricoperto d’oro fuso. I balordi sadichelli, tutti vestiti di nero, sono i foschi repubblichini di Salò. L’eroe Milian è “un partigiano” ma è anche un contro eroe, il suo quoziente di violenza sadica e spietatezza e perfino cecità non viene abbellito mai dalla retorica edificante dei vincitori. Per la prima volta sentiamo sotto pelle cosa è stata la nostra Guerra civile. Gli incubi di una generazione obbligata a far sua la massima di Brecht, “solo violenza aiuta dove violenza regna” perseguiteranno Questi fino ai suoi ultimi giorni e penetreranno ogni sua imagine.
“Negli anni non mi sono mai staccato dalla memoria della Resistenza, dalla mia esperienza di due anni passati in montagna” è quel che ha detto Giulio Questi, che era stato anche anche giornalista e collaboratore di Vittorini al Politecnico, ricevendo pochi giorni fa il premio Chiara, per il suo romanzo autobiografico Uomini e comandanti (Einaudi), uscito nel maggio scorso. Ed era reduce da una affollata retrospettiva al cinema Trevi di Roma, la saletta della Cineteca Nazionale, e da una proiezione, senza tagli, anche se un po’ magentata, perché lo stato delle pellicola positive dell’epoca è quel che è, di La morte ha fatto l’uovo al Torino Film Festival. Proprio sotto la Mole, nei primi anni 90 Alex Cox, l’anticonformista cineasta inglese che ha girato Repo Man e Sid & Nancy, interpellò il pubblico del Tff: “Chi di voi conosce il grande autore italiano Giulio Questi?
E chi ha visto quel capolavoro del cinema contemporaneo che si intitola “Se sei vivo spara?” Furono poche le mani alzate. Molto l’imbarazzo in sala. Ma, nel 2007, quando Marco Mueller invitò Giulio Questi a Venezia per la retrospettiva dedicata al western all’italiana curata da Marco Giusti, fu un trionfo. Pubblico entusiasta. Quentin Tarantino lo riconobbe come maestro, ricordando di averlo citato in Kill Bill 2. Alex Cox, che considera Django Kill (il titolo inglese di Se sei vivo spara) uno dei migliori western all’italiana ma soprattutto un’opera surrealista, degna dei film di Bunuel e Cronenberg, raccontò che a Questi i western non piacevano per niente e che, su richiesta di un produttore, aveva inserito in un paesaggio West i suoi ricordi di partigiano, quando teenager aveva assistito alle efferatezze nazifasciste.
E, come tutti gli aggrediti, era stato istigato a rispondere per le rime. “Il film è un catalogo di perversione, omicidi e ipocrisia, più che in qualunque altro film di guerra o di cowboy. Nessuno è buono. Anche se il più cattivo, che finirà bruciato vivo dall’oro fuso, in un fuoco appiccato da sua moglie, è il supermaniaco Hagerman, l’attore Piero Lulli”, aggiunse Alex Cox che ha reso omaggio al grande cineasta anche in una retrospettiva sul western spaghetti andata in onda sulla Bbc.
Grazie a Mueller e alla Mostra di Venezia finiva così il lungo silenzio su uno dei cineasti più radicali e colti del nostro cinema, ma completamente emarginato dal “sistema” dopo i suoi tre grandi film, visto che i progetti successivi, Happening e Fichi d’India furono il primo bloccato, il secondo “fascistizzato”, come scrisse Questi di L’Italia s’è rotta, il loro copione riscritto da Donati e Vincenzoni per colpa di Ponti. Mueller presentò alla Mostra di Venezia anche i suoi nuovi corti digitali, autoprodotti, diretti, interpretati, montati, fotografati e a costo zero tra il 2002 e il 2007. Storie raccontate in tono memorialistico da una voce fuori campo, piene di doppi sensi, sosia, paradossi saltanti (un morto e i suoi tre corpi, e anche: tre cadaveri per una sola identità in Tatatatango o Vacanze con Alice) tra Kafka, Calvino e Borges e l’ultimo Curtis Harrington (Mysterium Noctis o Repressione in città. Tutti pubblicati in 2 dvd da Ripley.

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