In Téchne. Le radici della violenza, uno dei suoiscritti più lungimiranti pubblicato nel 1979, Emanuele Severino dedicava al terrorismo il capitolo d’apertura del suo libro. “Il problema fondamentale – scriveva il filosofo bresciano – non è scoprire le basi del terrorismo, ma comprendere la situazione reale che lo rende possibile”.  Si trattava cioè di capire le determinanti storico-politiche che permettevano questo particolare scatenamento della violenza. Molti filosofi, soprattutto a partire dalle guerre del Golfo degli anni novanta dello scorso secolo e gli attentati dell’11 settembre a New York, hanno cercato in vari modi di rispondere alle sfide poste da un fenomeno che appare sempre più su vasta scala. Uno di questi è sicuramente Jean Baudrillard, filosofo francese scomparso nel 2007 all’età di 78 anni, che del fenomeno terrorismo ha fatto uno dei capisaldi più interessanti della sua speculazione. Il fulcro della sua tesi è che l’origine del terrorismo deve essere cercata nel monopolio esercitato dal sistema politico-economico occidentale sul resto del mondo. Ma non solo.

La natura del terrorismo per Baudrillard

«È perfettamente logico che la crescita in potenza della potenza esacerbi la volontà di distruggerla. Ma c’è di più: in un certo senso, la potenza è complice della sua stessa distruzione. E questa degenerazione è tanto più forte quanto più il sistema si avvicina alla perfezione e all’onnipotenza»1. Un’affermazione che per certi versi potrebbe suonare incomprensibile, ma che per altri è una straordinaria fotografia del mondo nel quale viviamo. Questa prima forma di “violenza globale” che «incalza ogni forma di negatività, di singolarità, compresa quella forma ultima della singolarità che è la morte»2 costituisce, per Baudrillard, il vulnusal quale, per quelle identità culturali disposte a tutto pur di non lasciarsi ridurre a un pensiero unico, è impossibile non reagire. Tuttavia, lo sviluppo senza pari conosciuto dalla civiltà della tecnica negli ultimi cinquant’anni l’ha resa sostanzialmente invincibile, perciò l’unico modo per sfidarla era quello di cambiare le regole del gioco. È il sistema stesso dunque, ad aver creato le condizioni perché potesse emergere il “transfert terroristico di situazione”, perché si potesse giungere ad una radicalizzazione tanto feroce. A ben vedere infatti, il trionfo del modello globale è tanto netto, che non ha alcun senso parlare di uno scontro nel significato abituale del termine, perché in sostanza non c’è nessuna Alterità a che gli si contrappone; ciò a cui stiamo assistendo è piuttosto “la mondializzazione trionfante alle prese con se stessa”.

Posizione questa che ritiene imprescindibile il ruolo del sistema occidentale per la genesi del terrorismo, condivisa e forse in parte anche anticipata, anche da Habermas e Derrida3, seppure con delle rispettive differenze. Mentre per il filosofo tedesco infatti, il terrorismo non è che il frutto di una crisi comunicativa e in quanto tale un male curabile attraverso un utilizzo più adeguato della razionalità; per il francese l’emersione di tale fenomeno sancisce l’avvio di un processo autodistruttivo che potrà essere superato solo con l’oltrepassamento dello stesso mondo occidentale e del suo modo di fare politica. Entrambi però, cogliendo nella promessa mancata della modernità, ossia nel suo non essere riuscita a fare della razionalità il vero linguaggio universale, la causa principale delle derive globalizzanti assunte dal modello occidentale, sono sostanzialmente concordi con il nostro autore nel valutare la situazione attuale come una specie di guerra civile del tutto inimmaginabile prima dell’11 settembre. Baudrillard la chiama la “Quarta Guerra Mondiale”, dopo che la prima ha posto fine all’egemonia europea, la seconda al nazismo e la terza (la Guerra Fredda) al comunismo, eccoci giunti nel bel mezzo del più frattale dei conflitti, quello per cui sono le stesse individualità di cui il mondo si costituisce a resistere all’ordine unico: «È il mondo stesso che resiste alla mondializzazione»4.

D’altronde, come potrebbe essere altrimenti? Nel diffondere la propria idea di Bene, il sistema globale rivela tutta la propria superbia, non solo perché assolutizza la propria prospettiva, ma anche e soprattutto perché viola le regola fondamentale dello scambio simbolico. In base a quest’ultima infatti, ogni volta che si riceve qualcosa si deve essere in grado di contraccambiare con qualcosa di valore superiore, innescando una sorta di gioco a rialzo che genera una tensione dialettica e mantiene un equilibrio fra le parti. Al cospetto di un sistema che ha fatto dell’appagamento di ogni desiderio la chiave della propria onnipotenza, non esiste alcun “contro-dono” possibile e si resta perennemente in una condizione di sudditanza. In effetti: «La base di ogni dominio è l’assenza di ogni contropartita – sempre secondo la regola fondamentale. Il dono unilaterale è un atto di potere. E l’Impero del Bene, la violenza del Bene, consiste proprio nel donare senza contropartita possibile. Nell’occupare la posizione di Dio. O del Padrone, che lascia allo schiavo la vita in cambio del suo lavoro»5. Gli stessi membri della società globale vivono sotto il peso di questo debito inestinguibile, in quanto tutto è virtualmente già concesso, e venuta meno la possibilità di sdebitarsi attraverso il sacrificio, poiché la morte è diventato il grande nemico, il Male per eccellenza, l’unica libertà possibile è quella di sottomettersi alla legge dell’equivalenza e disprezzare la propria condizione. Senonché, questa “saturazione dell’esistenza” ha fatto emergere anche un’altra forma di reazione, quella del rifiuto violento tipico dell’evento terroristico. «Oltre che sulla disperazione degli umiliati e degli offesi, il terrorismo si fonda così sulla disperazione invisibile dei privilegiati nella globalizzazione, sulla nostra stessa sottomissione a una tecnologia integrale […] che delinea forse il profilo involutivo dell’intera specie, della specie umana divenuta “globale” […]. E questa disperazione invisibile – la nostra – è senza appello, perché deriva dalla realizzazione di tutti i desideri»6. Per rendere visibile il proprio rifiuto dunque, i terroristi si scagliano contro quell’unico valore rimasto tale all’interno del sistema occidentale: la vita, riempiendo con la morte la quotidianità anestetizzata dentro cui viviamo. E nel farlo evidenziano, non solo il carattere tutt’altro che onnipotente del sistema – nell’istante in cui sono crollate le Torri Gemelle è stato l’intero modello globalizzante a crollare con esse, mostrando le sue debolezze -, ma anche è proprio attraverso i suoi stessi mezzi che può essere tenuto sotto scacco; perché è proprio della libertà concessa agli individui che il terrorismo si serve per colpirlo.  Tutto questo però, come si traduce quando proviamo a portarlo su di un piano più puramente filosofico? Qual è la vera questione di fronte alla quale ci pone il fenomeno del terrorismo?

La “metafisica dell’evento” e il nulla

Nella sua essenza più intima, il problema del terrorismo è un problema relativo alla percezione della temporalità. Questo infatti, trova la propria forza a seguito della spettacolarizzazione che ne danno i social media; e il suo porsi come evento – dove col termine evento s’intende il sopraggiungere di un fenomeno irrazionale che buca le trame del quotidiano per la sua portata distruttiva e in qualche modo rivoluzionaria – affonda le radici proprio nel fatto che solo dopo essersi realizzato esso viene pensato come possibile.

Di per sé, ogni evento in quanto tale, risulta del tutto impossibile prima di concretizzarsi nel mondo reale, perché è proprio questa imprevedibilità a identificarlo come “evento”. Perciò l’attentato diventa possibile solo dopo essersi attuato, perché allo stato potenziale esso è talmente sfuggente ed estraneo all’ordine di pensieri cui siamo abituati, che risulta perfino inimmaginabile. Al suo darsi però, ogni percezione muta. Al suo darsi, immediatamente subentra la consapevolezza della sua possibilità, ma non solo, anche quella della semplicità con cui un evento analogo potrebbe accadere. Così emerge la paura, che ben presto si tramuta in psicosi, il terrore appunto; ed è proprio nelle misure che il sistema adotta per cautelarsi che il terrorismo matura la sua vittoria. Questa logica da “caccia alle streghe” tuttavia, oltre che inefficace si rivela parimenti fallace, poiché si basa su quella che Baudrillard, ma prima di lui anche Bergson7 pensa come una “temporalità invertita”. Ossia come una temporalità non più legata alla scala ascendente: impossibile, possibile, reale, ma nella quale possibile e reale emergono nel medesimo istante e lo stesso processo immaginativo è solo una conseguenza, una giustificazione di quanto accaduto. Per Baudrillard in particolare, questa “metafisica dell’evento” nasce come unica risposta possibile alla tensione insita nel mondo contemporaneo, il mondo della “realtà Virtuale”, per cui ogni possibile è già virtualmente realizzato e conseguentemente cessa di essere tale.

Lo scenario che viene delineandosi perciò, è quello di una contrapposizione eterna fra il tempo del non-evento e l’istante in cui invece l’evento irrompe, imprevisto e imprevedibile, rispetto al quale nessun perfezionamento della tecnica potrà mai costituirsi come risoluzione definitiva. A ben vedere però, se l’evento viene pensato come qualcosa che prima di accadere non era neanche possibile – non esisteva neanche in potenza – allora ci troviamo a tutti gli effetti di fronte ad un ex nihilo. O per meglio dire ad un presunto tale, perché anche se Baudrillard utilizza proprio tale espressione per rendere al meglio la natura irrazionale dell’attentato terroristico, di fatto pensare all’imprevedibile come ad un nulla è un errore. Perché anche se nella mente di chi è destinato a subire l’evento esso è del tutto impossibile, non si può dire altrettanto di quella in cui esso viene progettato, anzi, in quest’ultima esso si mostra in tutta la sua verità. Perciò, anche se per il filosofo francese la “realtà” nel senso di una dimensione oggettiva da tutti condivisa e condivisibile è solo una costruzione mentale dell’uomo – tanto noi quanto lo specchio che ci riflette siamo parti del medesimo Tutto -; il nulla resta parimenti inammissibile. Anzi, nel pensare l’attacco terroristico come fa la “metafisica dell’evento” si commette esattamente l’errore che s’intende scongiurare negando la realtà, ossia si estromette dal contesto dell’esistente quella singolarità che proprio nel progettare e realizzare l’attentato lancia la sua sfida.

In ultima istanza dunque, è difficile non concordare con Baudrillard nel pensare che tentare di combattere il fenomeno del terrorismo fino ad estirparlo come un male oggettivo, non è solo illusorio ma del tutto impossibile, perché esso vive della stessa linfa che alimenta il sistema contro il quale si scaglia. «Il terrorismo» infatti «può essere interpretato come l’espressione della dissociazione interna di una potenza divenuta onnipotente – violenza mondiale immanente allo stesso sistema mondo. Ed è un’illusione volerlo estirpare come un male oggettivo, quando, nella sua stessa assurdità, è l’espressione della condanna che questa potenza pronuncia su se stessa»8. È parte integrante del mondo che abbiamo costruito e se le cose stanno così, anche l’invito di Derrida ad andare oltre i confini della politica occidentale rischia di risultare inutile poiché un ulteriore ampliamento degli orizzonti mentali in vista di una conciliazione rischia di venire avvertito come l’ennesimo tentativo di rendere tutto equiparabile, semplificabile, omologato. Forse il terrorismo riuscirà a cambiare il mondo, o forse sarà il mondo a cambiare il terrorismo, solo il tempo potrà rendere visibile la risposta a un simile enigma, solo il tempo potrà svelare ciò che la necessità ha già eternamente destinato ad essere.

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