Sergio Campailla, nell’introduzione all’edizione aggiornata ed ampliata delle poesie di Carlo Michelstaedter, ci avvisa immediatamente della radicale inclassificabilità del giovane goriziano. Premessa doverosa, invero, ché l’impossibilità di catalogarlo, rinchiuderlo in una scuola di pensiero o di stile piuttosto che in un’altra, significa sottrarre un destino, anche se definitivamente compiuto, al massacro dei suoi lettori. Inclassificabile perché il poeta si offre, come su un altare, al cuore di chi lo legge, senza le distanze di giudizi mai richiesti né in vita, né, a maggior ragione, dopo la morte.

Nacque, visse e morì, potrebbe essere la micidiale sintesi esteriore della vita di una giovane crisalide mai dischiusa per scelta – eterna incompiuta – e quello che resta del suo passaggio a chi è venuto dopo e a chi verrà ancora, tra tesi di laurea, poesie, disegni e scritti di varia natura, basta a parlarci di come ha camminato sulla terra per breve tempo, in un costante rincorrersi di crolli, interrotti da una feroce volontà di sperare senza fede, mai soddisfatta.

Nato a Gorizia nel 1887 e morto nel 1910 a ventitré anni con un colpo di rivoltella, la sbornia ottimista nel progresso di questo periodo, passato alla storia come belle époche, non lo toccherà mai neanche per errore, perché tutti  i progressi della civilità sono solo regressi – scriverà ne La persuasione e la rettorica – e i fabbri di un tempo, capaci di forgiare qualsiasi oggetto a forza di martello e fuoco, adesso sono sostituiti da eserciti di operai di fabbriche instupiditi da movimenti ripetitivi, fino a diventare essi stessi componenti di macchine.

Carlo scrive poesie donate ad un pubblico ristrettissimo, ad una donna soltanto, in cui esprime in modo acerbo, ma non per questo meno efficace, il suo Essere-per-la morte, fino ad approdare definitivamente alla Morte-per essere, come scrive lo stesso Campailla. Dalle prime poesie all’ultima, scritta nella notte del 22 settembre del 1910, si osserva la veloce maturazione del pensiero di Michelstaedter, che nel procedere di verso in verso, si tradurrà in una maggiore limpidezza lirica. L’intreccio tra vita e morte racconta, perché i germi di quest’ultima sono sempre ben riconoscibili nella vita a tal punto che attendere qualcosa – perché il cor vive, e vuole – è affanno cupo nel lento precipitare delle ore.

Una nebbia dura a diradarsi, mentre la propria vita si trasforma continuamente, e indifferente, si riduce ad un continuo dissolversi in attesa di una primavera, una ed intera, ed una gioia ed un sole, quello di Aprile, a trarlo finalmente alla vita, strappandolo al costante richiamo della morte.

Scrive in Risveglio:

Sta sotto il cielo sulla buona terra
questo ch’io chiamo «io», ma ch’io non sono.
No, non sono questo corpo, queste membra
prostrate qui fra l’erbe sulla terra,
più ch’io non sia gli insetti o l’erbe o i fiori
o i falchi su nell’aria o il vento o il sole.
Io son solo, lontano, io son diverso –
altro sole, altro vento e più superbo
volo per altri cieli è la mia vita…
Ma ora qui che aspetto, e la mia vita
perché non vive, perché non avviene?

Questo io di cui non sa nulla, se non che è lontananza; un riflesso di qualcun altro, più autentico, più vero, che vive altrove. Un io naturalmente doppio o a metà, che dir si voglia: uno, estraneo nei contorni che si delineano in uno specchio, a cui non basta sapersi di carne e sangue per sentirsi intero e l’altro l’amico fraterno, intimo, da raggiungere dopo una separazione dolorosa e forzata. Pure, Carlo Michelstadter, che vive in una famiglia il cui spirito è profondamente improntato all’irredentismo, non trova in queste istanze identitarie un po’ di pace dagli affanni; la patria non viene da fuori, non è comodo giaciglio per noia e stanchezza, ma deve essere creata nell’oscurità, come la vita stessa. E chissà chi sarà il giovane che hanno amato la russa Nadia Baraden, morta anch’essa suicida, e Jolanda De Blasi? Del resto, quanti, con assoluta certezza e senza inganno alcuno, possono davvero pronunciare la parola io – tremolio sul ciglio dell’abisso – senza infragersi in illusioni, cioè finalmente persuasi di ciò che sono attraverso il possesso del proprio presente?E siccome non c’è un’interezza, Michelstaedter si smembra in filosofo, poeta, pittore di straordinaria bravura, in un intreccio geniale e cupo di intuizioni artistiche e filosofiche.

Tutto ciò che elabora, è un lunghissimo anelito alla libertà che lui si convince di trovare nella morte, unico porto sicuro le cui promesse di disfacimento sono indissolubilmente legate alla fin troppo fugace gioia di constatare di essere al mondo. Carlo Michelstaedter sceglie di morire il 17 ottobre del 1910, non un giorno qualsiasi: è il compleanno della madre.

L’uscita materiale dalla vita – vi è traccia di questo pensiero nella tesi di laurea – non può prescindere dall’annientarsi moralmente, uccidendo in sé gli affetti che lo legano, ad irridere la Necessità inesorabile. È questo il momento di rompere gli indugi, ovvero di liberarsi dalle illusioni per approdare alla persuasione, saldando i conti con una nascita, la sua, che per ventitré anni lo ha separato dalla totalità dell’essere, fino ad arrivare in quel mare che ricorre nei versi frequentemente, come immagine del giusto ristoro, dopo il passaggio attraverso il deserto.

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