Bei tempi quelli in cui gli scrittori sapevano insultarsi. Ma sul serio. Non come oggi, epoca triste, in cui regna un clima di benevolenza, pacche sulle spalle e “volemose tutti bene” in nome della comunanza letteraria – per poi, magari, serbare privati rancori e intimi pettegolezzi. Invece in passato alcuni scrittori non hanno taciuto idiosincrasie, antipatie e insofferenze per i loro colleghi. Senza ritegno, alla faccia del politicamente corretto. Per averne un assaggio basterà visitare uno dei nostri più interessanti siti culturali: l’Archivio Caltari. Sempre pieno di spunti, da qualche tempo traduce e offre al lettore italiano gli insulti più caustici raccolti dal sito americano “Flavor Wire”.
Se ne trovano una cinquantina e c’è decisamente da divertirsi. Le migliori ingiurie, quelle più corrosive e maligne come solo gli scrittori sanno fare. Qualche esempio? Robert Louis Stevenson diceva di Walt Whitman: “È come un grosso cane a pelo lungo, che appena sciolto il guinzaglio, dissotterra tutte le spiagge del mondo e ulula alla luna”. O Vladimir Nabokov, che sul grande “tenebroso” Joseph Conrad scriveva: “Non riesco a sopportare lo stile negozio di souvenir di Conrad, le navi in bottiglia e le collane di cliché romanticizzati”. Sin qui giudizi non particolarmente benevoli, ma nulla in confronto alla penna aspra e acida di alcuni mostri sacri. Il catalogo è ampio: “Una muccona piena di inchiostro” (Flaubert su George Sands); “Un ippopotamo che tenta di raccogliere un pisello” (H.G. Wells su Henry James); “Una iena che scriveva poesie sulle tombe” (Friedrich Nietzsche su Dante Alighieri); “Un bambino idiota che strilla in ospedale” (H.G. Wells su George Bernard Shaw); “Completamente rozzo, immaturo e oppositivo” (Virginia Woolf su Aldous Huxley). Ci sono poi quelli più raffinati, meno diretti, ma non per questo meno corrosivi. Come William Faulkner, il quale notava di Hemingway: “Non risulta aver adoperato mai parola che costringesse il lettore a consultare il dizionario”. Appena saputo, ecco come rispose Hemingway: “Povero Faulkner. Davvero crede che i paroloni suscitino forti emozioni?”. Rimane geniale il gioco di parole di Gertrude Stein, chiamata a esprimere un giudizio su Ezra Pound: “Lui descrive villaggi. Sarebbe eccellente se tu fossi un villaggio, ma nel caso non lo fossi, allora non lo sarebbe”.
Mark Twain aveva una sorta di malessere fisico: “Non ci guadagno nulla a stroncare libri, e non lo faccio a meno che non li odii. Spesso ho provato a scrivere di Jane Austen, ma i suoi libri mi fanno diventare matto a tal punto che non riesco a nascondere la mia furia al lettore; perciò devo fermarmi ogni volta che comincio. Tutte le volte che leggo Orgoglio e Pregiudizio mi viene voglia di disseppellirla e colpirla sul cranio con la sua stessa tibia”. L’augurio di prendersela fisicamente con qualche collega perché irritante è abbastanza comune. Come il poeta Lord Byron, che di John Keats scriveva: “Ecco qui la poesia di Keats piscia a letto, e tre romanzi da iddio sa chi… Non più Keats, vi supplico: scorticatelo vivo; se qualcuno fra voi non è disposto a farlo, lo dovrò fare io in persona: non c’è posto per quelle schifezze idiote nel genere umano”.
Nemmeno i grandi classici vengono risparmiati: gli intoccabili, i capolavori eterni della letteratura. Prendiamo il Don Chisciotte di Cervantes: a parte che quelli che l’hanno letto sono davvero pochi, ma è realmente imperdibile? A sentire Martin Amis, proprio no: “Leggere il Don Chisciotte può essere paragonato a una visita per un periodo di tempo indeterminato da un tuo vecchio parente, il più insopportabile, con i suoi acidi scherzetti, le sozze abitudini, le reminescenze inarrestabili, e vecchi amici tremendi. Quando l’esperienza è finita e i vecchi ragazzi si accomiatano alla fine, verserai lacrime davvero, non lacrime di sollievo o di rimpianto, ma d’orgoglio. Ce l’hai fatta, a dispetto di quello che il Don Chisciotte poteva farti”.
Che dire poi di Voltaire, il grande illuminista, il faro della ragione contro le oscurità della barbarie e dell’ignoranza? Charles Baudelaire non aveva troppi dubbi: “Mi sono annoiato in Francia – e la ragione principale è che tutti assomigliano a Voltaire… il re degli imbecilli, il principe dei superficiali, l’anti-artista, il portavoce delle portinaie…”. Per non parlare poi dell’Ulisse di James Joyce, forse l’opera più odiata e sopravvalutata da lettori e scrittori.
Ecco cosa ne pensavano, nell’ordine, Virginia Woolf e D.H. Lawrence: “L’opera di un nauseabondo studente universitario che si schiaccia i brufoli”; “Dio mio… Nient’altro che avanzi, torsoli di citazioni bibliche, e tutto il resto cotto nel brodo di una deliberata, giornalistica lascivia”. Per finire con un bel terzetto secco: “Ci sono due modi per disprezzare la poesia: uno è disprezzarla, l’altro è leggere Pope” (Oscar Wilde su Alexander Pope); “Provare entusiasmo per Poe è segno di uno stadio di pensiero decisamente primitivo” (Henry James su Edgar Allan Poe); “Quello non è scrivere, è battere a macchina” (Truman Capote su Jack Kerouac).
È da notare anche un’evidente discriminazione di genere. Gli scrittori hanno sempre usato un po’ di sarcasmo, nemmeno troppo velato, per le loro colleghe donne. Per esempio Ralph Waldo Emerson su Jane Austen: “I romanzi della signorina Austen… mi appaiono volgari nel tono, sterili nell’invenzione artistica, imprigionati nelle noiose convenzioni della società inglese, senza genio, intelligenza, o conoscenza del mondo. Mai la vita è stata così costretta e angusta. Il problema principale è… la sua propensione al matrimonio”.
In tempi più recenti scopriamo quella cinica malalingua di Gore Vidal. Dopo aver letto Il prigioniero del sesso di Norman Mailer, sentenziò senza proroghe: “Come tre giorni di mestruazioni!”. E su Truman Capote: “È in tutto è per tutto una casalinga del Kansas, pregiudizi compresi”. Per non dire poi dei due maledetti della letteratura americana degli ultimi vent’anni. Quando uscì American Psycho di Bret Easton Ellis, David Foster Wallace scrisse: “Per un po’ blandisce spudoratamente il sadismo del pubblico, ma alla fine è chiaro che il vero oggetto del sadismo è il lettore stesso”.
Evidentemente Bret Easton Ellis non la prese bene, e non troppo elegantemente si è espresso così una ventina d’anni dopo, soltanto a poche settimane dalla morte del collega: “È troppo presto? E troppo presto, vero? Bè, io non lo stimo. Il giornalismo è pedestre, le storie confuse e piene di quel finto sentimentalismo del Midwest, e Infinite Jest è illeggibile”. Amen. Che poi, a dirla tutta, stiamo parlando dell’Olimpo letterario: anche se cattivissimi, questi giudizi sono comunque rivolti a scrittori veri, che possono piacere o meno, possono esser odiati, ma rimangono in definitiva grandi narratori.
Non c’è un nome fra quelli citati che non meriti di esser letto. E poi un po’ di cattiveria (quella intelligente però, non quella pettegola e autoreferenziale) non ha mai fatto male al mondo delle lettere. Serve a tener la corda tesa. Che è sempre meglio di una corda allentata. Anche perché, diceva William Gass (a proposito di un romanzo di Jay McInerney), che il solo “vantaggio di una scrittura che sembra una corda allentata sta nel fatto che lo scrittore non ci si può impiccare”.

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