Nell’America degli anni Cinquanta le donne non dovevano avere troppe ambizioni. Quando Sylvia Plath si laurea, allo Smith College, è il 1955, Adlai Stevenson, incaricata del gran discorso finale, lodò le donne laureate dichiarando che lo scopo della loro educazione era che avrebbero potuto diventare mogli spigliate, divertenti, colte, per accogliere al meglio i mariti, a casa. Gli ideali del dopoguerra, che hanno dominato il pensiero americano fino alla metà degli anni Sessanta, erano quelli, d’altronde: famiglia canonica, donna bianca della classe media ad accudire la casa. Le donne erano rispettate purché non perseguissero una carriera o cullassero troppe ambizioni.

Sei anni dopo essersi laureata, mentre scriveva The Bell Jar, la Plath ironizza: “Un uomo è una freccia scoccata verso il futuro, la donna è il luogo da cui la freccia scocca”. In forma sovversiva, Esther Greenwood, l’irriverente narratrice ideata dalla Plath, perfeziona il concetto così: “Il fatto è che odiavo l’idea di servire gli uomini, in ogni modo”.

Nel 1959 Anne Sexton vince una borsa di studio per studiare poesia sotto la guida di un grande poeta americano, Theodore Roethke. A un’amica, la poetessa Carolyn Kizer, scrive che certamente al poeta il suo lavoro non sarebbe piaciuto, “resterò a frignare nella grotta della mia femminilità”. La Sexton descrive in questo modo la sua angoscia: “è come prendere a calci la porta della fama che gli uomini sanno spalancare e a cui non ci concedono alcun accesso”. Eppure, proprio nell’America degli anni Cinquanta Sylvia Plath e Anne Sexton si incontrano per la prima volta. Entrambe sono poetesse emergenti, entrambe sono donne estremamente ambiziose in un’epoca in cui le donne non potevano coltivare ambizioni. Capirono quasi subito che per perseguire i propri desideri avrebbero avuto bisogno di determinazione ed energia. Cresciute a Wellesley, nello stesso sobborgo di Boston, non si erano mai incontrate durante l’adolescenza. Quando le loro strade si incrociarono, la Plath aveva 26 anni, la Sexton 30; frequentavano un corso di scrittura alla Boston University, condotto dal poeta Robert Lowell.

Per tutta la primavera del 1959, il martedì pomeriggio dalle 14 alle 16, la Plath e la Sexton hanno condiviso la stessa aula: la stanza 222 al 236 di Bay State Road. Quell’aula esiste ancora: piccola, pavimento di legno che scricchiola, pareti ricoperte di libri, tre finestre ampie; fuori scorre il fiume Charles. Sembra uno spazio davvero infimo per aver ospitato personalità titaniche come Robert Lowell, Anne Sexton e Sylvia Plath. “Era una stanza squallida, con la forma di una scatola per scarpe”, la ricorda la Sexton, “un luogo tetro, dimenticato per anni, come la stanza dell’arcolaio nel castello della Bella Addormentata”. Proprio lì le due donne hanno passato ore a leggere le proprie poesie, ad ascoltare quelle di altri diciotto studenti e a carpire i consigli di Lowell. L’atmosfera era per lo più costituita da silenzi imbarazzati, sottile terrore quando la propria poesia era scelta per una discussione, medesimo terrore quando veniva ignorata. Kathleen Spivack, una studentessa che ha frequentato quello stesso corso lo ha descritto come “un’esperienza snervante”.

Lowell faceva risuonare spesso la stessa domanda: “Cosa significa davvero questa poesia?”. Lunghi silenzi, occhi imbarazzati, rumore nervoso delle sedie. A volte quei silenzi irritavano la Sexton, “allora facevo la cagna… quando sviscera una grande poesia dice ‘Cosa rende bello questo verso?’. Silenzio. Tutti avevano paura. Allora rispondevo, ‘Non credo che sia così buono. Non ci lasceresti usare un linguaggio sciatto come quello’”.

Infine, durante una delle lezioni, Lowell accoppia la Plath con la Sexton. Forse ha intravisto una somiglianza che nessuna delle due poteva supporre. Forse ha intuito alcune connessioni tematiche nel loro lavoro. Forse fu un mero caso. In ogni caso, da allora le due furono costrette a lavorare insieme, e la loro amicizia prese una strada diversa. La Plath aveva un sospettoso rispetto nei riguardi della Sexton. Nel diario annota: “Lowell mi ha sistemato con Ann [sic] Sexton: un onore, suppongo. Bene. Ha cose buone, che migliorano, ce ne sono altre disordinate”. Quanto alla Sexton, pensava che la Plath fosse una sua seguace. “Lo ha saputo, come lo ha saputo George Starbuck, che avrei frequentato un corso tenuto da Lowell alla Boston University. Mi hanno imitato…”. La Sexton trascura di annotare la paura di non essere ammessa a quel corso. Lo scambio di lettere con Robert Lowell rivela la sua insicurezza: non era laureata, non era stata al college, scriveva da un anno. Dopo aver letto le poesie che le aveva spedito, Lowell le aveva risposto positivamente, scrivendole di ammirarla, di provare perfino un po’ di invidia per il suo talento. La Sexton pensava di incorniciare quella lettera.

Gli studenti che hanno frequentato il corso di Lowell ricordano le differenze polari tra la Sexton e la Plath, ognuna delle quali, a suo modo, creava un clima di soggezione. La Sexton arrivava a lezione spesso in ritardo, era disinvolta, simpatica, con abiti dai colori vivaci e gioielli tintinnanti. Si pettinava alla moda, fumava. I suoi occhi verdi erano memorabili; usava la scarpa come posacenere. Spesso faceva cadere i libri, i fogli, i mozziconi di sigarette: i ragazzi facevano a gara per aiutarla e offrirle un posto a sedere. Le sue mani tremavano quando leggeva le poesie ad alta voce.

La Plath, al contrario, era silenziosa, puntuale. Spivack la trovava sempre seduta al banco, impeccabile, sorprendentemente immobile. Aveva uno sguardo attento, inquieto, inquisitore. Rispetto alla Sexton, la Plath portava i capelli raccolti, indossava camice e cardigan abbottonati. Piegava con cura sullo schienale della sedia il cappotto in pelo di cammello. Sedeva di fronte a Lowell. Nessuno dei suoi riferimenti oscuri le era oscuro: era impeccabilmente istruita. Quando parlava, di solito era per fare un commento corrosivo sulla poesia di un compagno. La maggior parte degli studenti aveva paura di lei. Mentre esteriormente la Plath sembrava critica, severa, indipendente, i diari specchiano il dubbio, l’angoscia, la brama: “Ho una visione delle poesie che vorrei scrivere… quando mi verranno?”, scrive nel marzo del 1959.

In quella fase della loro vita, sia la Sexton che la Plath erano sposate: vivevano, almeno in superficie, secondo lo stile convenzionale che ci si aspetta da una donna americana bianca, della classe media, eterosessuale, con un certo privilegio. Il marito della Sexton, Alfred Muller Sexton II, detto ‘Kayo’, lavorava nell’azienda di famiglia che commerciava nella lana. Il marito di Sylvia Plath, Ted Hughes, era ormai un poeta di successo, che finiva per eclissare i tentativi della moglie. Eppure, in entrambe c’era un rifiuto profondo per i ruoli imposti. La Plath, per lo più, sfogava la frustrazione nei diari, lamentandosi di se stessa, del marito, rabbiosa per i rifiuti e i fallimenti. La Sexton collezionava amanti e nella primavera del ’59 inaugurò una relazione con George Starbuck. Anche lui era un poeta emergente, giovane editor presso la Houghton Mifflin. Il poeta Peter Davidson ricorda Starbuck come un ragazzo “tutto ginocchia e gomiti, altro come una gru, con grandi ombre sotto gli occhi e un ritmo malinconico nel parlare”. La relazione si svolgeva sotto l’occhio vigile e violento della Plath, che la trasformò in una storia: “Ecco l’orrore, in tutti i suoi dettagli”.

 

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