“Essere l’altra faccia di Dino Campana. Perché lo Stato dice che li aiuta, i poverini. Lo Stato mente. Fa retorica e demagogia”

Essere l’altra faccia di Dino Campana. Per un secondo soltanto pensarlo davvero. Quella salvata dalla chimica e dalla scienza. Quella che sì, ha dovuto subire ugualmente lo sfregio dell’internamento, ma che poi nella lotta è riuscita a cavarsela. Essere tutt’al più se stessi. Non vantarsi del genio altrui. Intimidire, piuttosto, davanti a una tale grandezza.

Di Dino occorre aver rispetto. Quello che in vita non ha avuto quasi mai. Quello che occorrerebbe dare a chiunque, in ogni ambito dell’esistenza. Ma che invece decade non appena si trova una scusa per sparlare immediatamente alle spalle. Qui non c’entra il moralismo. Qui si parla di grandezza assoluta. La follia è un corollario. Corona di spine. Rosario.

Essere l’altra faccia di Dino. Quella a cui è andata bene, forse per un soffio. Saperlo, può indurre in tentazione. Saperlo invece è monito. Un aver ancora più cura di se stessi. Sentire e accusare una responsabilità non di poco conto. Però ugualmente cercata e voluta. Significa, in buona sostanza, affidarsi totalmente al Destino.

Ci fu un poeta, nemmeno tanti anni fa, che non nomino per pudore, il quale scrisse una poesia sull’argomento. Si domandava, se non ricordo male, chi sarebbero potuti diventare i Dino Campana dell’epoca se fossero vissuti ai nostri tempi, con l’aiuto della chimica e della scienza. Mi dette subito da pensare, quella poesia. Mi riguardava. Ed eccomi oggi quasi a rispondergli, con questo articolo, da questo foglio, povero pulpito.

Non pensare caro poeta che io stia giocando coi grandi nomi, né tanto meno con le parole. Io ci son passato per quella via, e forse la transito ancora. Non è un gioco, ciò che scrivo. Vorrei quantomeno dare l’esempio. Esser da sprone a molti altri. Vedi, non mi vanto. Se parlo, parlo di me stesso. Se butto addosso al lettore tutto di me, non è per sfregio, pregio o orgoglio. Al contrario, con umiltà, vorrei dare speranza a quanti attraversano l’inferno. Poiché d’inferni ce n’è tanti. Pure troppi. Dacché qualcuno ce la fa, riemerge. Qualcun altro, no. Qualcun altro, muore.

Mi farebbe piacere invitarlo quel caro aedo, nei luoghi che ho visitato e che frequento ancora. E che non pensi a una burla. Vorrei ci fosse meno celia e maggior coscienza. Perché quelli come me, e come Dino, son costretti, in certi ambienti, a farsi la guerra tra di loro. Una guerra tra poveri, che non ha alcun senso. Lo Stato dice che li aiuta, i poverini. Lo Stato mente. Fa retorica e demagogia.

Essere l’altra faccia di Dino Campana ‒ ora, quindi ‒ è quasi un impegno. Perché ho sperimentato che per alcuni, persino in letteratura, esiste ancora un bene comune che viene prima di qualsiasi altra cosa e di qualunque ego. C’è qualcuno che vuole sul serio salvaguardare il bene dell’altro, oltre che il proprio. E non ha paura di giocare a testa alta e di essere, soprattutto, l’altra faccia della letteratura. Quella sommersa, quella osteggiata, ma, come tutti sanno e non dicono, quella più vera.

Se ci guardiamo intorno siamo in diversi, tutti diversi, pronti a duellare in un Paese dove al contrario vige l’insulto quale massimo potere, o il silenzio quale forma intimidatoria di controllo. L’insulto e l’ignoranza, però, non sono nulla. Soprattutto non fanno male. Potranno creare un effetto a sorpresa, certo. Semmai, spiazzante. Ma giocare sul serio, affrontarsi vis à vis, persino in letteratura, l’abbiamo dimenticato cosa significa?

Cos’è che spaventa? Che Davide vince contro Golia. Che Dino è immortale, mentre Papini e Soffici sono nient’altro che un corollario; uno scherzo di cattivo gusto, che gli si è rivoltato contro.

Essere noi stessi è la cosa più vera e difficile da fare. Il doveroso sacrificio d’affrontare. Essere voluti bene per questo, è la lotta da perpetuare.

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