Nel 2014 Ghost Box compiva dieci anni. Ai suoi due fondatori un po’ bizzarri, Jim Jupp e Julian House, piace fare le cose per bene (e con calma), pertanto con qualche mese di ritardo ma nel solito formato super lussuoso e con grafiche bellissime che caratterizzano tutte le uscite dell’etichetta britannica, il 9 ottobre uscirà la compilation che ne celebra il decennale, In A Moment… Ghost Box. Trentuno brani rimasterizzati che fanno un exscursus sul catalogo Ghost Box (da Belbury Poly e Focus Group a The Advisory Circle, Pye Corner Audio e The Soundcarriers), accompagnati dalle note del supporter numero uno della label, Simon Reynolds. Ecco cosa ci avevano raccontato quando li avevamo intervistati lo scorso anno, sul Mucchio di dicembre 2014.

A tutti sarà capitato di svegliarsi la mattina con in testa uno strano sogno fatto durante la notte. Uno di quei viaggi onirici in cui un evento del presente si mescola a ricordi lontani, magari di quando si era bambini, filtrati attraverso la macchina da presa distorta dell’inconscio e la patina sfocata della memoria. Ebbene, se questi sogni avessero una colonna sonora, probabilmente sarebbe a cura di Ghost Box. Molto più che una semplice etichetta e poco meno di un culto, Ghost Box nasce nel 2004 per opera di Julian House e Jim Jupp, divenendo esempio d’eccellenza di una hauntology che gioca col potere della memoria ma ne moltiplica come un prisma le declinazioni, intrecciando riferimenti trasversali di una popular culture con specifiche coordinate spaziotemporali. È così che dalla “scatola
dei fantasmi” escono i racconti pastorali di The Belbury Poly (progetto di Jim Jupp), le atmosfere idilliaco-spettrali del Focus Group (creatura di Julian House), l’elettronica sci-fi di The Advisory Circle e quella più futurista di Pye Corner Audio. Amata da tutti quelli che contano (a partire da Simon Reynolds), Ghost Box ha compiuto dieci anni e il 5 dicembre pubblica il quarto album di The Adivsory Circle, nome storico del suo roster. Un’occasione per farci raccontare da uno dei due fondatori, Jupp, qualcosa di più sulla musica e sugli artwork di una delle etichette più affascinanti in circolazione. Plausibile che quando vi risveglierete, vi sembrerà di essere ancora in un sogno.

Questa storia comincia prima del 2004: le sue radici affondano nell’amicizia di vecchia data fra te e Julian e nel contesto in cui siete cresciuti, la cittadina di Carleon, nel Sud del Galles. Come ha contribuito tutto ciò a plasmare l’estetica di Ghost Box?
L’adolescenza è un momento cruciale, in cui scopri molto della cultura e hai tempo per condividerla. Se sei un outsider, è eccitante avere band o libri che solo tu e la tua cerchia di amici conoscete: così è stato, per noi, con i racconti dell’orrore e del soprannaturale di H.P Lovecraft e Arthur Machen. Il Sud del Galles ci ha ispirati intrecciandosi con queste scoperte letterarie, Carleon ha sempre avuto un’atmosfera bizzarra, alimentata dalla sua architettura antica, dalla presenza di un ospedale psichiatrico e parecchi pub.

Il nome Ghost Box introduce perfettamente l’immaginario dell’etichetta. Da dove arriva?
Da un programma TV educativo per ragazzi degli anni 70, Picture Box. Aveva come sigla un pezzo spettrale di Lasry-Baschet intitolato Manège, suonato con un’armonica a bicchieri. Poi abbiamo pensato che Ghost Box potesse funzionare anche come sinonimo per la stessa televisione, si collegava a vecchi e strani programmi TV, fra immaginazione e realtà. A quei tempi eravamo attirati da suggestioni come il fenomeno paranormale delle voci elettroniche
o l’interesse nella spiritualità di John Logie Baird e Thomas Edison: ogni storia sembrava associata alla sovrapposizione di tecnologia e spiritualità.

L’immaginario Ghost Box è obliquo ma ben definito, tanto da possedere un’estetica subito riconoscibile. Musica, letteratura, TV e graphic design delineano un concept connesso alla cultura britannica di un certo periodo, ce ne parli?
Da sempre siamo interessati al periodo fra inizio anni 60 e 80, cruciale per l’esplosione della popular culture, prima che le tecnologie digitali rendessero tutto immediatamente reperibile. I nostri riferimenti sono legati a TV, film e musica di quegli anni, filtrati e distorti dalla memoria: è proprio questo ricordo sfocato che ci interessa. Da bambini, capitava che scovassimo vecchi dischi o guardassimo film bizzarri in TV di cui non sapevamo nulla, eccetto quel che potevamo immaginare con la fantasia; i vecchi prodotti culturali portavano con sé un mistero peculiare e non c’era modo di trovare risposte su Internet come oggi. Fra le nostre influenze prettamente britanniche ci sono le serie TV per bambini degli anni 60 e 70 legate al soprannaturale, come The Owl Service o Children Of The Stones; i suoni misteriosi del Radiophonic Workshop; la rigida filosofia del design e l’etica paternalistica di pubblicazioni legate all’istruzione, come i libri Ladybird e Pelican; gli strani e inquietanti programmi TV educativi, onnipresenti sulle Reti nei 70. Un’altra enorme influenza è stata la library music, e quella migliore è stata prodotta in Italia fra metà anni 60 e 70 da compositori come Bruno Nikolai, Giampiero Boneschi e naturalmente Ennio Morricone. Su Ghost Box c’è l’influsso della cultura cinematografica italiana di quegli anni, cosa che vale anche per altri cineasti e musicisti del nostro ambito: Berberian Sound Studio (colonna sonora dell’omonimo film curata dai Broadcast nel 2012, NdR) ne è un esempio.

Le suggestioni magiche di letteratura e fiction riconducono alla tradizione popolare inglese, ma il folklore aleggia sull’immaginario Ghost Box anche dal punto di vista musicale – nel materiale d’epoca usato come sampler e nell’atmosfera da folk moderno, in cui analogico e digitale coesistono.
Tutti noi condividiamo un interesse per il folklore e la musica folk a vari livelli, ma la nostra estetica è più legata a questa tradizione nel modo in cui è filtrata da musica e film. Per dire, Julian e io siamo più interessati al revival acid folk di fine anni 60 che al mondo puramente folk tra 50 e 60.

Cosa vi lega all’arco temporale tra anni 60 e 80?
È un periodo magico: la pop culture britannica è esplosa ed è stata l’era delle tecnologie analogiche, terminata negli 80. Le registrazioni audio, la TV e i film avevano una consistenza peculiare che è andata scomparendo con il digitale, capace di catturare molti più dettagli. Con questo passaggio un certo tipo di suoni e mistero ha abbandonato la cultura pop, ora ogni falsa memoria può essere subito verificata. Ma non siamo contro la tecnologia, grazie a cui possiamo registrare tutto come vogliamo e il nostro, seppur piccolo, pubblico si è allargato su scala globale.

Mancano gli anni 90: che impatto ha avuto questa decade?
Tanto la dance music quanto band retrofuturiste come Stereolab, Pram, Plone e ovviamente Broadcast sono state influenti. A parte questo, al cambio di secolo molta elettronica – in particolare l’IDM di Warp – sembrava estremamente distopica e “macha”. Tutti questi giovani uomini umorali e burberi col berretto di lana… I nostri interessi erano agli antipodi e in un certo senso abbiamo reagito a tutto questo. Se un’uscita Ghost Box sembra oscura o severa, ribadisco che si tratta solo di fantasia, che lo scopo è divertire. Non ci sono tragiche profezie o riferimenti politici: è tutto molto più leggero, più una sorta di fumetto che di manifesto.

Ogni album è accompagnato da packaging straordinari, dove non è solo la musica a parlare (un esempio: il racconto fantastico del giornalista Rob Young nel booklet di The Belbury Tales). Quanto è importante che i suoni siano legati ad altre forme di comunicazione?
Il graphic design è fondamentale, non solo come packaging ma anche come ispirazione nel continuo flusso narrativo di Ghost Box. Speriamo che ogni uscita sembri arrivare da un mondo parallelo. Parte di questo tipo di narrazione arriva dal nostro amore per le storie soprannaturali, il misticismo naturale di Algernon Blackwood e Arthur Machen e gli universi immaginari e pieni di riferimenti incrociati di H.P. Lovecraft, autore importantissimo per noi, perché nonostante la follia della scrittura e delle storie, c’è sempre una strana plausibilità nei suoi racconti.

La cura per le uscite in quanto oggetti è una peculiarità di Ghost Box, senza contare che dalle copertine più lineari degli inizi siete passati ad artefatti più complessi – come l’ultimo album di The Focus Group, Elektrik Karousel, che richiama un gioco da tavolo. Come lavorate sugli artwork?
Il processo legato al design va di pari passo con la musica e, quando possibile, è sviluppato durante la registrazione del disco. In genere abbiamo un’idea di partenza sul mood dell’album, Julian e io ci scambiamo molti input: pagine di immagini (vecchie copertine di libri e album, fotogrammi di film, elementi di design), liste di parole, argomenti e titoli di canzoni. In questo modo costruiamo una lavagna di riferimento con le atmosfere del disco, chiedendo all’artista di contribuirvi. Poi la rifiniamo dandogli una forma narrativa. È un processo collaborativo, ma il tocco definitivo è affidato al genio di Julian. Quando inizialmente diede forma all’estetica grafica di Ghost Box attinse in parte alle cover dei tascabili Penguin e Pelican, specie quelle tra fine 60 e metà 70, cercando anche di catturare l’austerità delle copertine di library music. Abbiamo sempre voluto che ogni aspetto trasmettesse il senso di appartenenza a una serie, per agganciarci a un approccio collezionistico ed enfatizzare l’idea che tutti i dischi provenissero da una stessa dimensione, sebbene fossero di musicisti diversi. Le influenze di Julian includono la pop art europea, Peter Blake, la optical art e lo stile di design dei collage free form della stampa underground dei 60. C’è interesse nel collage in quanto approccio mentale, come i cut up nei testi di Burroughs, per dare vita a una realtà immaginaria alternativa (peculiare anche della musica del suo Focus Group, NdR).

Mi sembra che il passato si stia sempre svolgendo adesso. Il presente vive nel ricordo”. Questa frase di Trish Keenan (metà dei Broadcast, scomparsa nel 2011) è nel booklet di The Belbury Tales, pensiero-manifesto per cui non c’è neppure bisogno di citare Retromania di Reynolds, che all’hauntology di Ghost Box dedica varie pagine. Cosa è successo a metà Duemila, quando la cultura pop ha cominciato a voltarsi indietro, e cos’ha per voi il passato di così potente?
Un’enorme influenza su scala globale ha avuto l’aumento delle etichette di ristampe e compilation dedicate a folk, psichedelia, elettronica anni 60/70 e soprattutto library music, precedentemente caduta nell’oblio. Un altro aspetto che ci ha attratto è il modo in cui un tempo la cultura cambiasse più rapidamente, a dispetto dell’ampia offerta – ma più omologata – che c’è adesso: è possibile trovare una differenza sia nella moda sia nella musica fra l’inizio del 1972 e la sua fine, mentre oggi non è facile dire in che punto degli ultimi 15 o 20 anni un film, un album o un’opera d’arte sia stata prodotta. Come se tutto provenisse da un periodo omogeneo e quasi immobile.

Dieci anni di Ghost Box: cosa è cambiato dal 2004 a oggi?
Il passaggio da minuscola etichetta DIY a qualcosa di più professionale è stato un processo organico e gratificante, in cui non abbiamo corso grandi rischi economici. Stiamo lentamente cercando di ampliare il nostro concept per lavorare con una gamma più ampia di artisti che amiamo: le collana di singoli, Study Series e la più recente Other Voices (tra gli ospiti, Broadcast, John Foxx e Mordant Music, NdR), sono state un’ottima opportunità per provare nuove collaborazioni. Ci piacerebbe non essere esclusivamente un’etichetta dedicata a elettronica e musica strumentale, anche per questo lavorare con The Soundcarriers è stato stimolante. Inoltre, di recente abbiamo messo su una compilation di cortometraggi e promo a cura di Julian che è stata proiettata in alcuni festival nel Regno Unito e speriamo di farne a breve un DVD.

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GHOST BOX IN 10 DISCHI

 

BELBURY POLY – “THE WILLOWS” (2004)
Il debutto del progetto di Jim Jupp, fra le primissime uscite Ghost Box. Folk moderno in cui elettronica sghemba si mescola a sample analogici, creando una sorta di continuum con le visioni retrofuturiste che da Eno arrivano ai Boards of Canada. Il tutto ambientato a Belbury, (immaginaria) cittadina sonnolenta e misterica del Galles.

ERIC ZANN – “OUROBORINDRA” (2005)
Altro pseudonimo di Jim Jupp (ispirato a una storia di Lovecraft), stavolta in una versione elettroacustica più spettrale, desolata e primordiale. Suoni realizzati con vecchi oscillatori, frammenti sonori e voci bizzarre che sembrano provenire da una dimensione lontana.

THE FOCUS GROUP – “WE ARE ALL PAN’S PEOPLE” (2007)
Terza uscita per la creatura di Julian House. Titolo programmatico: “Il Grande Dio Pan” di Machen si manifesta in un caleidoscopio di mondi fantastici, collage sonori delicatamente psichedelici di library music, esotismi, elettronica vintage. Un irresistibile pastiche surreale.

MOUNT VERNON ARTS LAB – “THE SÉANCE AT HOBS LANE” (2007)

Ristampa dell’album del 2001 del musicista scozzese Drew Mulholland. Un “lost classic” dell’elettronica britannica, visionario, sinistro e grottesco. L’album fa incetta di suoni occulti che sembrano provenire tanto dallo spazio quanto dalle viscere della terra.

THE ADVISORY CIRCLE – “OTHER CHANNELS” (2008)
Primo album per Ghost Box del progetto di Jon Brooks. Appassionato di Public Information film e library music, Brooks crea tessuti sonori attraverso sample ed esperimenti affini alla musica concreta che riportano la musica del passato a rivivere nel presente. Reale eppure fantasmatico.

STUDY SERIES 04: BROADCAST & THE FOCUS GROUP – “FAMILIAR SHAPES AND NOISES” (2010)
I Broadcast sono la formazione popular extra Ghost Box più vicina al concept della label. Dopo l’album condiviso Broadcast & The Focus Group – Investigate Witch Cults Of The Radio Age uscito per Warp nel 2009, le due formazioni condividono questo suggestivo singolo di magica psichedelia hauntologica.

BELBURY POLY – “THE BELBURY TALES” (2012)
La tradizione folk e prog britannica, l’elettronica hauntologica, il soprannaturale, l’infanzia, strumentazione analogica e digitale in un mix quasi esoterico sono racchiusi in questo racconto-manifesto di Jim Jupp. Uno degli album più belli di tutto il catalogo Ghost Box.

PYE CORNER AUDIO – “SLEEP GAMES” (2012)
Pye Corner Audio è Martin Jenkins, il progetto più puramente elettronico di Ghost Box (in alcune parti quasi prossimo alla techno). John Carpenter, colonne sonore horror italiane, disco e synth spettrali tra le influenze. Nel booklet una frase di Ballard “Prima o poi, tutto si trasformerà in televisione”.

THE FOCUS GROUP – THE ELEKTRIK KAROUSEL (2013)
La tecnica del cut up all’ennesima potenza, il gioco come concept. Un’alchimia bizzarra e psichedelica di chitarre elettriche, strumentazione esotica, frammenti di library music e colonne sonore. Artwork ambizioso e quasi barocco che riproduce un gioco da tavolo.

THE SOUNDCARRIERS – ENTROPICALIA (2014)
Psichedelia cinematica e analogica, suoni vintage, groove e voce solare. Terzo album per il quartetto di Notthingham e primo per Ghost Box, che sposta verso suoni più raffinati e pop i confini dell’estetica della label. England gone (rétro) tropical.

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