Non ricordo dove l’ho sentito – tanto che potrei essermelo inventato – ma a quanto pare Paolo Conte è il tipo che si chiede che ore sono in un quadro. A che ora sta accadendo quel Picasso? E quel Caravaggio? Se volessimo chiederci in che momento della giornata accadono le canzoni di Paolo Conte, invece, concluderemmo che è quasi sempre notte. Ma non per questo definiremmo la sua musica notturna o particolarmente oscura: in ogni sua storia c’è sempre una luce, un piccolo occhio di bue che illumina un personaggio, un dialogo, un tic, un dettaglio.

Tuttavia un episodio oscuro – o quantomeno più difficile da inquadrare – nella discografia di Paolo Conte esiste. Parole d’amore scritte a macchina arriva nel 1990 e va a inserirsi tra Aguaplano e 900, diventando col senno di poi un classico a sua volta. Sulle prime però sembra un oggetto strano, per qualcuno anche un disco di molto inferiore agli altri per qualità e ispirazione. Riascoltarlo trent’anni dopo significa provare a comprendere qualcosa in più di quel buio, forse, e dei fantasmi che lo abitano.

Sulla copertina illustrata da Hugo Pratt c’è il volto di Conte ritratto a metà tra Cab Calloway e David Niven. Attorno delle donne stilizzate, dai tratti selvatici e maliziosi. Due di loro si fondono col ritratto del nostro, che guarda in là, in un punto indefinito, come se non fosse interessato alle figure che lo circondano. Ovviamente lo è: tantissimo. L’anima del disco, come per altri lavori di Conte, è in parte quella suggerita dalla copertina: la negritudine ubriaca della giungla-jazz delle origini, mescolata con una bianchezza aristocratica da scapolo sposato e non meno – ma sempre con contegno – attaccato alla bottiglia.

Poi il titolo. Racconta Cesare G. Romana nella biografia Quanta strada nei miei sandali (Arcana, 2006) che Paolo Conte è solito rispondere alle interviste per iscritto, “con un corsivo impaziente”. Non fatichiamo a immaginare Conte utilizzare lo stesso corsivo per buttare giù anche testi e canzoni. Qui invece si passa a una macchina da scrivere: le parole d’amore sono quelle che un uomo e una donna alle prese con un divorzio affidano ai propri avvocati nella title track (che a posteriori sembra uscita dalla colonna sonora del recente film Storia di un matrimonio).

Ma la macchina è anche quella che produce i suoni più strani del disco: in alcune canzoni di Parole d’amore scritte a macchina l’elettronica pura – ovvero non la semplice emulazione del suono di legni, fiati e altri strumenti classici – diventa la protagonista assoluta. Anche per questo per alcuni critici l’album è sperimentale, per altri è semplicemente il momento in cui Conte ha deciso di pasticciare, peraltro in ritardo, con un sound anni ’80, toccando così delle insane punte di kitsch. Oggi invece quel suono effettivamente strano – strano non solo per gli ascoltatori di Conte – dà a Parole d’amore l’aura di un’opera senza tempo, spuntata da chissà dove. In fondo, si dirà, è senza tempo tutta la musica di Paolo Conte, sempre in equilibrio tra esotismo da camera e sobria urbanità novecentesca. Ma qui c’è qualcosa in più.

In musica l’amore rimanda più di ogni altro tema all’autobiografia: sembra che chi canta ci stia raccontando i suoi dolori, le sue gioie. Ma nella carriera (e dunque nella vita pubblica) di Paolo Conte c’è un non detto enorme, un’ellissi gigantesca: la sua biografia, appunto. Abbiamo concordato con l’avvocato di Asti, senza bisogno di dircelo, che la sua musica è una continua fantasmagoria che parte da odori, visioni e suggestioni vere, comuni, spesso quotidiane, per portarci in un altrove senza tempo che appartiene a tutti e che lascia intoccata la privacy di Conte. Ma gli spazi vuoti creano sempre fantasmi. Parole d’amore scritte a macchina è pieno di spazi vuoti, di strane voci che cantano senza che si riesca a riconoscerne la fonte, di cose che mancano. A partire dalla batteria.

Tutte le canzoni dell’album si sorreggono sul graffio delle chitarre, su un pianismo spoglio e malinconico, molto spesso su semplici pulsazioni elettroniche. Il tono generale è quello di un vaudeville melanconico e arrembante, in cui autore attori e pubblico sono la stessa persona, mentre il suono è decisamente oscuro, di un’oscurità unica nella discografia contiana, specie quando rinuncia a ogni massimalismo: se chiudiamo gli occhi ascoltando Parole d’amore, il colore che vediamo è il nero. Su questo sfondo avvampano saliscendi blues (Dragon), voodoo partenopei (Ma si ta vo’ scurda’), paradisi di solitudini glaciali (Eden), confessioni vetrose da sogni infranti, irripetibili al risveglio (Un vecchio errore), inni solenni per orchestre di mmm (Il maestro).

Quando non è amara e distaccata, la voce di Conte si fa sbronza e starnazzante, a scaldare un ambiente raffreddato per contrasto dai cori femminili (Mister Jive, Happy feet, ancora Dragon e l’incipit de Il maestro), sempre algidi e spettrali, come fossero generati proprio dalle riproduzioni sintetiche delle donne disegnate da Pratt in copertina – o forse, perché no, dai fantasmi di tutte le donne su cui Conte ha fantasticato con malcelato ardore dietro l’apparente e leggendaria compostezza (Egle, sua moglie, sono convinto che sappia tutto, e non solo lo tollera, ma ne è divertita, superba, intelligente, in fondo consapevole che tutte quelle donne è lei, sempre lei, diffusa emanatrice di storie – o forse no).

In generale la presenza femminile nel disco è un’impresenza, complice anche il fatto che le donne di Parole d’amore non hanno nomi – né Wanda né Marisa svegliami e abbracciami, questa volta. Al contrario, a spiccare ne Il maestro è una donna figurata, l’entità anonima e collettiva dell’orchestra “eccitata e ninfomane, che ribolle di tempesta e libertà” con cui il direttore-domatore fa l’amore nel ring del golfo mistico.

Per trovare un nome, allora, bisogna andare a leggere tra i crediti del disco, e scoprire così che alla voce femminile de La canoa di mezzanotte si deve un mistero ulteriore contenuto nel disco. La canzone racconta la vicenda di una donna fantasma, una prostituta indiana di cui è innamorato un capitano delle giubbe blu americane. La voce di Conte, qui particolarmente tirata nel gorgheggio e nella farneticante glossolalia, si incrocia col canto femminile, lo insegue, ne è inseguito, fino al ringhio congiunto su cui il brano sfuma nel finale. A cantare con Conte è Sibyl Amarilli Mostert, in arte Sibilla o Sybil, un nome che a più di qualcuno probabilmente non dirà nulla – anche perché le notizie su quest’artista si perdono proprio a partire dal 1990.

Nel 1976, a ventidue anni, Sibilla ha cantato Keoma, scritta dagli Oliver Onions per la colonna sonora dell’omonimo western di Enzo G. Castellari, per poi recitare con Fellini in Prova d’orchestra, in cui interpreta la flautista. Ma l’apparizione – è il caso di dire – più memorabile di Sibilla è legata al festival di Sanremo del 1983, dove si presenta con Oppio di Franco Battiato e Giusto Pio.

L’esibizione sul palco dell’Ariston viene ricordata come un autentico disastro. Secondo alcune versioni della storia, Sibilla stonò per via di un problema tecnico o addirittura di un sabotaggio volto a danneggiare Battiato, secondo altre era così in preda al panico che finì col chiedere che anche la voce andasse in playback insieme alla base strumentale: peccato che, sempre più terrorizzata, ci cantò comunque sopra.

Com’è e come non è, la performance, rivista alla luce della trasfigurazione acida dei filmati del passato caricati su Youtube, ha dell’inquietante.

Inquietante anche perché Sibilla continua a vivere in eterno proprio in questo video e da nessuna altra parte, almeno per quel che ne sappiamo. L’esibizione a Sanremo, infatti, decretò sostanzialmente la fine della sua carriera, e su Wikipedia la sua biografia si conclude così: “Nel 1990 partecipa alla realizzazione dell’album di Paolo Conte Parole d’amore scritte a macchina; è infatti sua la voce nel brano La canoa di mezzanotte. Dopo quel lavoro se ne perdono le tracce”.

“Se ne perdono le tracce”: tralasciando l’ambiguità dell’espressione “perdere le tracce” associata a una cantante, non è difficile immaginare Sibyl Amarilli Mostert come una delle tante donne inventate da Paolo Conte, uscita da quelle canzoni d’amore scritte su una macchina che cattura e restituisce una realtà di fantasmi come un proiettore cinematografico in una vecchia sala buia e fumosa. Di più: non è difficile immaginare una realtà alternativa in cui Paolo Conte non ha mai pubblicato un disco strano come Parole d’amore scritte a macchina, e di conseguenza la stessa Sibilla, Sibyl, Sybil, Ines o Judith che dir si voglia non è mai esistita.

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