Prime coordinate

Berlino, Repubblica Federale di Germania, Mitte: il primo distretto della città che, come suggerisce il nome, ne è anche il centro. Angolo fra la Zimmerstraße e la Friedrichstraße, Checkpoint Charlie: un cubicolo bianco che oggi è insignificante ma un tempo è stato uno dei pochi varchi consentiti fra mondi chiusi e incomunicabili. Mondi – l’Occidente e l’Oriente, la democrazia e il socialismo, la complicata geopolitica delle due Germanie – che ventisei anni dopo la caduta del muro ci paiono lontanissimi dalle nostre esperienze quotidiane, sbiaditi nella memoria.
Oggi il Checkpoint Charlie somiglia a un ultimo baraccone dimenticato, al residuo di un circo smembrato e dismesso. C’è il viavai dei turisti che hanno da poco visto la Porta di Brandeburgo (una delle più commoventi e astratte incarnazioni dell’idea prussiana di eleganza), ci sono manifesti cui è demandato il compito di spiegare e tramandare quanto è avvenuto, un museo del muro in cui comprare anche qualche pezzetto degli anni ’80. E l’immancabile McDonald che fa da sfondo al tutto. Ci sono poi due falsi comprimari, quasi due gladiatori della guerra fredda. Comparse vestite da soldati americani che si fanno fotografare accanto al turista cui impongono un copricapo nostalgico: e si può scegliere fra l’America reaganiana e l’USSR della Perestrojka, o magari la piccola DDR, la migliore DDR del mondo, come la definivano ironicamente i suoi grigissimi abitatori.
Il passante di buone letture che vede la scena pensa al vecchio Marx che commentava, scuotendo la testa, il colpo di stato liberticida di Napoleone II; ritorna, questo passante, all’incipit di quel micro-capolavoro che è Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte: «Hegel nota in un passo delle sue opere che tutti i grandi avvenimenti e i grandi personaggi della storia si presentano, per così dire, due volte. Ha dimenticato di aggiungere: la prima come tragedia, le seconda volta come farsa» (così nella traduzione – nientemeno – di Palmiro Togliatti). Guardando la casupola bianca del Checkpoint Charlie, sembra di leggere queste parole per la prima volta. Viviamo in tempi di farsa. Una farsa sempre in procinto di capovolgersi in tragedia.

Berlino, Museumsinsel, centro della città che non ha centro. Oltre il fiume c’è una cupola aperta, di cemento armato, su un edificio lungo ma tozzo, sempre di cemento armato. Struttura nuda e geometrica; cartesianamente bianca e vuota di contenuto, scostante rispetto alla dolcezza dei bei musei del lungo secolo prussiano. Su quell’isola-parco, gli Hohenzollern vollero dotare gli amati sudditi di un pratico abrégé di storia dell’architettura occidentale, raggruppando in pochi metri quadrati il classicismo inquieto e la solennità barocca, filtrati sempre da visioni romantiche e aspirazioni neomedievali. Di fronte alla solennità onirica dell’Altes Museum di Schinkel, questo ipertrofico rettangolo è uno degli edifici che meglio ci raccontano gli anni che stiamo vivendo.
Stiamo guardando l’antico Stadtschloss, il castello dei re di Prussia e degli Imperatori tedeschi, mentre rinasce dalle ceneri; il visitatore ne ha davanti lo scheletro, poi verranno le carni e la meraviglia delle finestre, delle dorature, dei risvolti, dei rilievi: tutte le decorazioni e la pomposità di una dinastia che ha gestito male la sua fortuna ma che non ha mai disdegnato grandeur e perentorietà delle forme: la verticalità categorica dei concetti e la maestosità delle facciate, canoni ossessivi di una estetica che ha ispirato tanto gli architetti della cattedrale di Colonia quanto i parrucchieri dell’ultimo Kaiser che sovraintesero alla cura dei suoi mitologici, mitopoietici, baffi a punta.
Il fantasma dello Stadtschloss prende di nuovo corpo e non lo fa in territorio neutro, cresce di giorno in giorno nel vuoto di una precedente grandezza, definitivamente sconfitta. È una storia appassionante: negli anni cinquanta, in una Berlino ancora ossessionata dalle proprie macerie, la residenza dei sovrani, semidistrutta, viene buttata a terra per fare spazio al trionfante sogno comunista, al Palast der Republik, finito nel 1976. Il cuore della neonata DDR, la sede del governo, del parlamento, del Partito, delle attività culturali di quel mondo irrimediabilmente scomparso. Solo un pezzo dell’antico Stadtschloss venne salvato: il bellissimo balcone da cui, nel 1918, Karl Liebknecht proclamò la repubblica e che oggi si può vedere incastonato in quello che fu lo Staatsratsgebäude, il consiglio di stato della DDR. Il Palast der Republik, dinosauro dell’architettura di regime, ha resistito per qualche anno al crollo del muro, ma poi è stato sommerso e distrutto – i lavori sono finiti nel 2006 – dalla normalizzazione che ne è seguita. La pacificazione dell’Europa post-sovietica ha portato alla decisione di abbattere il vero per riedificare il finto.
In quel vuoto ora si edifica un nuovo Stadtschloss dall’anima di cemento armato. La prima volta come tragedia e la seconda come farsa. Ci aveva preso il vecchio Marx, che era pure allievo di Hegel e sapeva che la prosa del mondo ha bisogno di coprirsi di nuove e fascinose mitologie, che il grigiore ha bisogno del fuoco di qualche utile retorica per persistere indisturbato e rassicurante; che le rivoluzioni borghesi – si perdoni l’anacronismo –, di fronte alla loro inadeguatezza, necessitano di “reminescenze storiche per farsi delle illusioni sul proprio contenuto” . Illusioni, grandi illusioni collettive, sui cui da poco è intervenuto, in pagine tanto ostinatamente lucide, Guido Mazzoni, con una riflessione sui nostri Destini generali che proprio da un viaggio berlinese ha preso l’avvio.
La nuova edificazione dell’antica residenza reale non ha molto da spartire con la rinascita dei monumenti a Dresda. Lì era stata la Storia a distruggere tutto, a polverizzare quella città dall’aspetto fiabesco e irreale. Dresda era un sogno tracciato sul cristallo, non poteva resistere. Ora è rinata esattamente come una Firenze del nord: una macchina fagocita-turisti, ma questa è un’altra storia. Berlino, per sua e nostra fortuna, non ha subito bombardamenti in questi miracolosi decenni di pace europea. Su Berlino, come su tutto il resto, si è solo alzata la nebbia. La mistificazione ideologica travestita da crollo delle ideologie è la dèa che presiede alla costruzione di questo nuovo, anacronistico castello.
Le prime pagine del 18 Brumaio di Luigi Bonaparte ci parlano dell’inadeguatezza dei regimi democratico-capitalisti di fronte alle grandezze passate, del loro bisogno di impossessarsi delle mitologie di tempi eroici per nascondere la mediocrazia dei tempi di privazioni. Lo spettrale palazzo dello Stadtschloss non è, o almeno non è solo, la celebrazione delle ambizioni imperiali della Germania – che in questi ultimi anni paiono pienamente realizzate – quanto una desolante pietra tombale sul diverso da noi. La materializzazione del silenzio che grava sulla storia dei vinti, la cancellazione dell’altro, dello straniero, di colui che ha una voce differente dalla nostra e per questo incresciosa, invisa, se si potesse usare questo aggettivo per una voce. La presenza dell’altro in questo caso prende l’aspetto della vecchia Germania socialista e della sua in gran parte deprecabile storia. Quella DDR che oggi sopravvive nella magia capitalistica del feticcio e che nell’arco dei decenni si è evoluta dalla vendita di reliquie e frammenti del passato alla più complessa strategia di marketing della Ostalgie; la ricerca di un clima, di una atmosfera in cui noi uomini della sonnacchiosa Europa post-ideologica possiamo per qualche ora vivere immersi in una stereotipata DDR risorta dalle rovine.
Se pure la contrapposizione fra capitalismo trionfante e comunismo sconfitto ci pare paradigmatica in questi anni del post-89, la storia dello Stadtschloss non è solo la storia della sconfitta del socialismo reale, è il monumento dell’annientamento del diverso, di quanto non si incasella nelle nostre categorie; dell’altro che non si lascia arrotondare dal nostro metro e dai nostri valori.

Intermezzo: suggerire la profondità

In una celebre poesia, Jacques Prévert ha raccontato la libertà della Senna, felice nel suo scorrere, accanto alle guglie accigliate e solenni di Notre-Dame; attorno a questo spettro di cemento armato scorre invece la Sprea, e lì si concede uno dei momenti più dolci del suo sinuoso percorso berlinese. Stefania Migliorati, giovane artista italiana che – come si dice – vive e opera a Berlino, trasforma il fiume in «strumento critico di investigazione urbana» come si legge nella presentazione del suo progetto Die undichte Stadt, la città permeabile, che è possibile vedere qui. Le cinque fotografie che fissano altrettanti punti differenti del lungofiume non si accontentano della bidimensionalità delle forme presentate ma si aprono ad inaspettate profondità. Sono paesaggi cittadini consueti, noti a chiunque abiti in quella città bella e povera, e tuttavia le didascalie che l’artista aggiunge – esiste un eroismo della didascalia – elencano i luoghi dove si prendono decisioni di tipo economico, politico e culturale, destinate a influenzare le vite di molti, in Germania e in Europa. Scoperchiare le case per guardarci dentro è uno dei gesti romanzeschi per antonomasia. Il Diavolo zoppo, protagonista dell’omonimo romanzo seicentesco (El diablo cojuelo [1641]) di Luis Vélez de Guevara – che tradotto in francese da Lesage nel 1707 invase le biblioteche di mezza Europa – l’aveva già fatto con le case di Madrid per mostrare alla vittima delle sue tentazioni quanto nascondono le finestre e le porte delle case rispettabili: la miserevole condizione della natura umana e la sua incostanza. Ma qui i tetti restano saldamente attaccati alle strutture, si tratta di intuire quanto avviene dentro, negli spazi segreti e a pochi accessibili. Le foto che ritraggono con raffinatezza e razionalità i profili della Undichte Stadt danno luogo a una piccola topografia del potere. La didascalia è un timido gesto che, come avveniva nelle antiche carte, avverte l’osservatore: «hic sunt leones».
Siamo passati insomma dalla cancellazione di un passato ingombrante (la farsa grottesca del Checkpoint Charlie e quella tragica dello Stadtschloss) a una giovane artista italiana che con le sue opere ci lascia intuire la presenza di una profondità dietro l’apparente uniformità del landscape urbano. Profondità è la parola chiave di questo ragionamento: è il contrario di superficiale ma è anche lo spazio delle voci dimenticate. La profondità delle differenti stratificazioni storiche viene negata, nel cuore d’Europa, dall’orizzonte piallato dell’ideologia dominante che, in quanto dominante, è sempre ideologia suadente e dissimulata, tanto trasparente da confondersi con le linee stesse del paesaggio: tanto trasparente da volerci convincere che è essa stessa natura e non scelta, opzione razionale, costrizione semi-obbligatoria.

Lo sguardo del Duca

«Il venticinque settembre milleduecentosessantacinque, sul far del giorno, il Duca d’Aube salì in cima al torrione del suo castello per considerare un momentino la situazione storica. La trovò poco chiara. Resti del passato alla rinfusa si trascinavano ancora qua e là. Sulle rive del vicino rivo erano accampati un Unno o due; poco distante un Gallo, forse Edueno, immergeva audacemente i piedi nella fresca corrente. Si disegnavano all’orizzonte le sagome sfatte di qualche diritto Romano, gran Saraceno, vecchio Franco, ignoto Vandalo. I Normanni bevevan calvadòs». Les fleurs bleues di Raymond Queneau, messe in italiano da Italo Calvino, iniziano con questo straordinario ammasso di illustri detriti che si accumulano nei feudi sterminati del signor Duca. Confusione cacofonica delle età dell’uomo in cui sembra culminare la grande tradizione del romanzo storico. Nel Novecento, la narrazione ottocentesca del romanzo storico si è suddivisa in molteplici rivi e rigagnoli. Nella linea che conta (Tomasi di Lampedusa, Yourcenar, Garcia Márquez) l’occhio attento del romanziere è sempre capace di uno sguardo verticale. A questa tradizione appartiene Wilfred G. Sebald: lo scrittore nomade e metafisico degli Anelli di Saturno, della Storia naturale della distruzione. Fra i suoi ultimi scritti, quello pubblicato in Italia come Le Alpi nel mare è un meraviglioso esempio di una scrittura che procede per estensioni, raccontando la Corsica in tre capitoli rispettivamente dedicati alle memorie napoleoniche di Ajaccio, a quelli che un tempo si sarebbero chiamati gli usi e i costumi e – infine – alla conformazione del territorio. Più che un filosofo della storia, Sebald sembrerebbe, come a suo tempo furono Manzoni e Walter Scott, un geologo della storia.
Mi è capitato di recente di partecipare a un convegno sull’epica nella modernità e lì ho avuto modo di fare qualche riflessione su Sebald che qui sintetizzo per chiudere il mio ragionamento. Austerlitz, il capolavoro postumo dello scrittore, è il punto di arrivo di questo saggio su un possibile uso virtuoso della storia. Austerlitz è un ipnotico viaggio nella memoria, dove la voce dell’individuo che cerca di ricostruire il mosaico di un passato sfuggente si allarga fino a coincidere con una dimensione epica. Un canto in prosa che assorbe e conserva le vicende degli altri in un racconto capace di narrare l’esistenza nel suo procedere instabile e serpentino (quanto conta ancora la tua lezione, reverendo Sterne!), nel suo continuo interrogarsi sulle proprie fondamenta. Austerlitz è il nome di una battaglia, ma le battaglie sono confuse e – dice Carlo Ginzburg – persino invisibili; è il nome di una stazione parigina, ma le stazioni sono luoghi di passo, dove domina il vuoto, il transitorio (nel romanzo però sono anche luoghi di spaesanti epifanie, come succede nell’archetipica stazione di Dublino, all’inizio di tutta la nostra vicenda romanzesca); Austerlitz, infine, è il nome di un uomo che ricostruisce la sua vicenda. Nella sua voce si sedimenta un secolo di storia europea, la sua identità è un viaggio a ritroso nei decenni sanguinosi di un’età di guerre e pacificazioni.
La voce isolata amplifica la propria inquietudine fino a raggiungere il destino di una collettività sterminata, più grande di una singola nazione. Il canto epico si distende, abbandona la verticalità numinosa del poema e accetta le strettoie della prosa, scava fra le collisioni dell’anima, indaga nelle molteplici sfumature del trauma.
In Austerlitz questa consapevolezza delle stratificazioni del passato che lascia tracce è un’immersione nei territori, sempre più profondi e opachi, della coscienza. La struttura monolitica del passato si sfalda nel procedere del racconto del protagonista, emergono crepe e incertezze. Il tempo non somiglia alle rocche studiate dal protagonista del libro: fortini a stella, sempre più complicati, cui gli ingegneri militari aggiungono in modo paranoide spuntoni su spuntoni, ma è una realtà viva e imprendibile, aperta al movimento e alla permeabilità.
Pochi anni prima di Austerlitz, nel suo romanzo cartografico, Mason & Dixon, Thomas Pynchon aveva scritto che la Storia non è semplice Cronologia (History is not Chronology): non una catena composta da singoli anelli (single Links) ma un «assai disordinato Garbuglio di linee, lunghe e brevi, deboli e salde, che vaniscono nella Profondità Mnemonica, avendo in comune solo la Destinazione». Sebald, a sua volta, rovescia la struttura del tempo europeo, passando dalla precisione mercantile degli orologi alla permeabilità quasi magica della temporalità interiore. Per Jacques Austerlitz, che non ha mai posseduto un orologio, la rivelazione finale è proprio la permeabilità del tempo: «A mio giudizio, disse Austerlitz, noi non comprendiamo le leggi che regolano il ritorno del passato, e tuttavia ho sempre più l’impressione che il tempo non esista affatto, ma esistano soltanto spazi differenti, incastrati gli uni negli altri, in base a una superiore stereometria, fra i quali i vivi e i morti possono entrare e uscire a seconda delle loro disposizioni d’animo e quanto più ci penso, tanto più mi sembra che noi, noi che siamo ancora in vita, assumiamo agli occhi dei morti l’aspetto di esseri irreali e visibili solo in particolari condizioni atmosferiche e di luce».
Il Novecento si è aperto con un racconto che aveva mostrato la presenza dei morti nella vita dei viventi, il Secolo breve si chiude ad anello con pagine che sembrano tornare all’originale dei Morti di Joyce, ma – si ricordi che epica crea con etica una perturbante coppia minima – stavolta la presenza delle ombre ci riporta a vicende più ampie, che hanno toccato moltitudini di uomini e donne. E non è un caso che questo libro sia stato scritto dopo il ritorno della guerra in Europa, mentre la parte orientale del continente tentava – e ancora tenta – di trovare e di inventare, fra le molteplici possibilità, un’identità a lei confacente. La memoria riallaccia la storia di Jacques Austerlitz alla storia del suo, e del nostro tempo; è il rivo, la particola minima, della dolorosa totalità di quanto è universalmente umano. Ha scritto Hans Magnus Enzensberger che il mondo è tenuto insieme solo da quanto non lo abita più, e che «senza gli assenti, nulla ci sarebbe / senza gli esiliati, nulla sarebbe saldo, / senza gli incommensurabili, nulla di commensurabile / gli scomparsi sono giusti / così anche noi, in un’eco»
Al cemento armato dello Stadtschloss si contrappongono gli ectoplasmi del passato: stratificazione è consapevolezza dei fantasmi. Disposizione a riconoscere e accogliere nel nostro campo visivo le tracce di storie invisibili e pure persistenti e in qualche modo vive attorno a noi. Non l’intellettualistica epifania del romanzo sperimentale, ma la dolorosa presenza degli scomparsi, la loro voce ostile ancora presente. Voci di vittime e di carnefici che si confondono nei paesaggi consueti, ma che sono ancora perfettamente distinguibili per l’uomo che volesse coglierli e in qualche modo conservarli. E non sono uguali, non hanno la stessa dignità, didascalicamente ripeto che non sono uguali, non si possono assommare i carnefici e le vittime ma, allo stesso tempo, non si possono eliminare i carnefici, perché le vittime perderebbero parte della loro verità storica per incarnare una dolenza dolce e morbosa, senza scandalo, senza contatto con la nostra realtà. Presenze e screziature che l’occhio preferisce non vedere, disarmonie per l’orecchio. Voci che si vorrebbero ridurre ai cerimoniali dei giorni della memoria che consentono poi trecento e sessantaquattro (o cinque se bisesto) giorni di dimenticanza. Disse Goethe da qualche parte che chi non vuole vivere alla giornata deve darsi conto di migliaia di anni di storia; ed è una dannazione perché vivere alla giornata è bellissimo e non possiamo concedercelo. Non possiamo se non vogliamo restare schiacciati dal cemento armato dell’anima di questo inutile castello che mentre scrivo e mentre voi leggete si costruisce a Berlino, capitale d’Europa.

Controfinale

Berlino, non lontanto dalla Ostbahnhof, il più grande club d’Europa, dove club non sta per elitario ritrovo per uomini silenziosi foderato di poltrone di pelle, ma per trionfo della musica elettronica. Berghain. Il nome fonde i due quartieri di Kreuzberg e di Friedrichshain, al cui confine sorge. Un tempo anche lì ci passava il muro, anche lì si opponevano i due mondi. Oggi moltitudini in fila, dal venerdì alla domenica. Nella città in cui per decenni la felicità è stata sperata oltre un muro, a Charlottenburg e non a Prenzlauer Berg, e la speranza prendeva la forma di una via d’accesso, di un varco, oggi la coda davanti al Berghain è l’ambizione di entrare fra gli eletti, passare il portone oltre il quale non si fanno fotografie. E naturalmente non ci sono criteri, decidono gli impiegati del club, decide Sven il capo dei selezionatori. Uomo che incarna lo spirito del nostro tempo come Napoleone a cavallo lo incarnò per Hegel, quando vide l’imperatore per le strade di Jena. Sven: uomo dell’ibridazione e della mescolanza delle razze e dei destini. Artista, fotografo, omosessuale, nato a Berlino est, Sven è oggi il padrone dei due mondi, l’uomo sul confine del desiderio e dell’appagamento, è il Minosse che giudica una folla venuta apposta fin lì per farsi giudicare, una folla disposta a disumanarsi, a diventare merce e profitto, pubblicità vivente per l’oscuro regno dei balocchi. Disumanarsi in merce per entrare, per superare il muro. Gente che fa guadagnare il Berghain molto di più stando in attesa sotto il gelo dell’inverno berlinese che pagando il biglietto e consumando il lecito e l’illecito al suo interno. Sven è l’estremo alunno di Lutero che certifica la nostra propensione al servo arbitrio, alla servitù volontaria. E forse fra qualche anno il Berghain andrà a Varsavia, e forse il prossimo decennio tutti conosceremo qualcuno che abita a Varsavia come abbiamo conosciuto qualcuno che era a Barcellona, qualcuno che ora è a Berlino. E ancora lì, fra le memorie del ghetto e di Solidarność, le file per entrare, e ancora le misteriose decisioni di Sven che determinano chi può e chi, davanti alla legge, è escluso.
La prima volta come tragedia, le altre come farsa.

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