Si nesci arrinesci – dicono in Sicilia, cioè: se vai fuori, hai successo. A 19 anni, è il 1964, Franco Battiato uscì dalla Sicilia, per avere successo nel mondo. Suo padre, Turi, pure era uscito: era andato a Nuova Yorke, a fare il camionista e lo scaricatore di porto, ma ci era morto. Così, Battiato si prese la sua truscia e partì “verso le nebbie” di Milano: «Milano allora era una città di nebbia, e mi sono trovato benissimo. Mettevo a frutto la mia poca conoscenza della chitarra in un cabaret, il “Club 64”, dove c’erano Paolo Poli, Enzo Jannacci, Lino Toffolo, Renato Pozzetto e Bruno Lauzi. Io aprivo lo spettacolo con due o tre canzoni siciliane». Quelle sapeva.

Poi, è il 1967, si mise a fare canzoni di protesta – e chi non faceva canzoni di protesta, al tempo? Avevano fatto un duo, lui e il suo compaesano Gregorio Alicata, che erano nati nello stesso posto, solo che quando era nato Gregorio si chiamava Riposto che c’era il fascismo e quando era nato Franco si chiamava Ionia che il fascismo era finito – perché in Sicilia si cambia spesso nome alle cose, perché possano sembrare diverse, anche se poi sempre le stesse sono. Gregorio, che era un poco più grandicello e era “nisciuto” già prima di lui, lo aveva incoraggiato a partire. Così, avevano formato “Gli Ambulanti” – e andavano davanti le scuole e nei cabaret. Poi, con Gregorio le cose non erano andate lisce – che i siciliani sono così, oggi sembrano innamorati pazzi e il giorno dopo si odiano – e ognuno per la sua strada. La strada di Battiato si chiamava Giorgio Gaber che lo aveva notato e lo aveva invitato a andarlo a trovare e ne divenne una specie di mentore. E fu proprio Gaber che decise di chiamarlo Franco – perché in giro c’era Francesco Guccini e due “Francesco” magari che la gente si confondeva. E così Francesco Battiato divenne Franco Battiato – «Da un giorno all’altro, pure mia madre prese a chiamarmi Franco» – ma Franco o Francesco, cambiategli nome, sempre lui medesimo era: un genio. Dove c’era talento di natura, ma tanto tanto tanto lavoro, curiosità intellettuale, sperimentazione, rischio.

Certo, a pensare il Battiato spirituale e colto, ritirato e mistico degli ultimi anni, che aveva trasformato la sua Milo sotto l’Etna in una specie di Monte Athos della musica, viene difficile ricordare il Battiato dei primi anni Settanta. E forse è così che succede, che diventi vecchio e diventi davvero quello che sei e tutta la vita ti sei preparato a accogliere questa persona che ancora non conosci, ma che sta dentro di te. Eppure. Una volta raccontò in un’intervista («Esquire»): «Era tutto improvvisato, così come veniva: in maniera selvaggia, brutale. Tenevo il VCS (il sintetizzatore) fisso sui 10.000 hertz e c’era sempre questo suono lancinante – uiiiuuu-uiiiuuu – e poi gli altri mi venivano dietro facendo rumori e cose così. Usavamo anche lastre di metallo e oggetti vari, sempre tutto a volume altissimo, assordante. Anche le luci erano violente, con queste strobo accecanti sempre in movimento che non capivi nemmeno come facevi a muoverti, insomma, era un casino assoluto, totale. Poi tenevamo questa enorme croce sul palco che a un certo punto io prendevo e spaccavo davanti al pubblico – era un po’ una provocazione blasfema un po’ un messaggio del genere ‘liberatevi delle vostre ossessioni’, no? E il pubblico naturalmente impazziva. E quando dico che impazziva intendo che impazziva sul serio: mille, duemila persone in un locale che a un certo punto davano di matto e cominciavano a sfasciare tutto – poltrone, arredamento, pezzi di palco. E altre mille persone fuori che non erano riuscite a entrare e che premevano per farlo, così alla fine il casino si trasferiva anche all’aperto. Era follia pura, una roba allucinante!». Era stato uno dei primi a procurarsi quell’aggeggio per mille sterline, a Londra dove poi andò anche a esibirsi – alla Roundhouse, durante una rassegna di musica post-psichedelica europea – per beccarsi l’appellativo di “obscure sicilian freak”.  Poi, la svolta, Stockhausen – di cui divenne anche amico – e poi il primo disco a raggiungere un milione di copie: L’era del cinghiale bianco. Da lì – la storia la ricordiamo tutti. Lui la raccontava così a «Repubblica»: «Avevo bisogno di un pubblico. Per anni mi ero comportato come un recluso, da solo nel mio studio, a studiare e a comporre. Ho tentato la carta del successo commerciale praticamente per scherzo. E, incredibile a dirsi, mi è andata bene!»

Oggi, padre Antonio Spataro direttore della rivista gesuita «Civiltà Cattolica», un siciliano anche lui, che di Battiato era amico, non parla certo di quella enorme croce sul palco che veniva spaccata ma dice: «Era assolutamente unico nel suo genere, con una forte radice spirituale, più che religiosa, nella sua opera artistica. La sua assoluta e completa apertura alla dimensione della spiritualità è una rarità nel mondo musicale italiano. E il brano La cura, cui sono personalmente legato, è un vero gioiello che rivela la sua profondità spirituale e artistica, intrecciando l’umano e il divino». De La cura, padre Spataro fa una sorta di moderno Cantico dei Cantici – e forse non se ne allontana troppo, considerata com’è una delle più belle canzoni d’amore. Chissà se padre Spataro ricorda che a quel testo collaborò anche il filosofo Manlio Sgalambro, siciliano certo – questa è tutta una storia di siciliani nel mondo – “nichilista”, nietzschiano incallito. Ma sono i misteri della spiritualità, dell’umano e del divino, o come più laicamente si dice, dell’alto e del basso mescolati.

Battiato scriveva cose così (proprio ne La cura): «Vagavo per i campi del Tennessee / Come vi ero arrivato, chissà
 / Non hai fiori bianchi per me?» E spiegava: «Quando si intende adattare un testo alla musica si scopre che non è sempre possibile. Finché non si fa ricorso a quel genere di frasi che hanno solo una funzione sonora. Se si prova allora ad ascoltare, diventa chiaro il senso di quella parola, il perché di quella e non di un’altra». Quella parola, non un’altra: «Un giorno sulla prospettiva Nevski / per caso vi incontrai Igor Stravinsky».

A un certo punto, verso la fine degli anni Ottanta, se ne tornò in Sicilia. Ricorda oggi Pippo Baudo: «Era molto legato alla sua terra e non l’ha mai lasciata. Prima abitava nel centro storico di Catania, nella bellissima via Crociferi. Poi, per avere più tranquillità, si ritirò nella sua villa a Milo, il paese più alto sull’Etna, dove comprò un palmento». E qui compose dei lavori struggenti e bellissimi.

Tempo fa in un’intervista confessò: «Gli esseri umani non muoiono. Ci si trasforma. Sto lavorando per essere degno di questo passaggio».

Sono certo che fosse pronto.

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