Venezia 73. Ammettiamolo. Ieri grande serata a Venezia. Con Frantz di François Ozon, raffinata rilettura di un capolavoro di Ernst Lubitsch del 1932, Broken Lullaby, girato in uno smagliante 35 mm in bianco e nero con qualche stravolgimento a colori, e grande storia pacifista e d’amore che fa il suo effetto sia dopo la Brexit sia dopo questa estate di morte e di odio che ha toccato l’Europa.

FRANTZ DI FRANCOIS OZON FRANTZ DI FRANCOIS OZON

Con Safari di Ulrich Seidl, che, oltre a essere una meraviglia visiva, ogni inquadratura è perfettamente studiata e comprensiva di tutto il senso dell’operazione, è anche una strepitoso ritratto della follia omicida della vecchia Europa che si scatena in un parco safari in Namibia governato da europei. E con Zombi di George Romero, presentato nella versione da opera rock italiana rimontata da Dario Argento e rimusicata dai Goblin, che ha finalmente scaldato il pubblico dei fanatici del genere e dell’horror presenti a Venezia, con tanto di introduzione di Nicholas Winding Renfn e Dario Argento.

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Andiamo per ordine. Ozon, con questo ben strutturato e avvolgente Frantz, ci ha dato uno dei suoi film migliori, anche se toccato da un po’ di eccessi da bella scrittura. Ma questo schermo in bianco e nero di Pascal Marti, dove Ozon si muove alla ricerca dell’Europa ricostruita a Hollywood di Lubitsch, per larlarci anche dell’Europa frantumata di oggi, offre allo spettatore un piacere inaspettato.

Nel 1919, a guerra da poco finita, il giovane soldato francese Adrien, un bravissimo Pierre Niney, tormentato dal dolore per aver ucciso un giovane soldato tedesco, Frantz, decide di andare a trovare i suoi genitori in un paesino della Germania per cercare di ottenere da loro un difficile, impossibile perdono. Lì incontra Anna, Paula Beer, la bella fidanzata di Frantz, che vive con quelli che avrebbero dovuto essere i suoi suoceri. Malgrado l’odio della comunità tedesca per i francesi, Adrien, dichiarando una falsità, di essere cioè stato amico di Frantz e non l’uomo che lo ha ucciso, riesce a farsi accettare dai genitori del soldato, Ernst Stroetzer e Marie Gruber, ma finirà poi per rivelare a Anna la verità prima di tornare in Francia.

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Questa rivelazione cambierà il rapporto fra Anna e Adrien e obbligherà in qualche modo la ragazza a mentire lei stessa sia al francese che ai genitori di Frantz per non far soffrire nessuno. Innamorata di Adrien, sarà poi lei a partire per la Francia alla sua ricerca nella seconda parte del film e a incontrare la sua famiglia. Ozon stravolge il film di Lubitsch, che si limitava alla storia del soldato francese in Germania alla ricerca dei genitori dell’uomo che aveva ucciso, allargando così la costruzione a specchio del racconto che modella sui suoi due protagonisti.

E punta gran parte della sua versione della storia sulla figura di Anna, facendone un’eroina ozoniana romantica e innamorata che cerca la pace e l’amore. Più che a Lubitsch, che non cadeva nel melodramma della piece scritta da Maurice Rostand che stava alla base del film, Ozon allarga la sua versione romantica all’amato cinema di Sirk, reso meno fiammeggiante proprio dalla ricerca del rigore del bianco e nero.

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Ottimo film, benissimo recitato da Paula Beer e Pierre Niney sia in tedesco che in francese. E addirittura straordinario nell’orrore da entomologo del suo regista Ulrich Seidl è Safari, che mette in scena una serie di verissime coppie e famiglie mostruose austriache che cercano di spiegare davanti alla cinepresa la normalità della follia omicida che le spinge a uccidere per puro piacere i grandi animali della savana. Sono persone di modesta classe sociale, non vip fuori di testa.

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Solo vederli mentre si fanno le fotografie con le povere prede stecchite, mentre leggono le tariffe delle bestie da uccidere, provano i fucili, aspettano nei gabbiotti gli animali o parlano nei salotti pieni di bestie impagliate, ci mostra il grado di delirio e di nazismo che si cela dietro questi piccolo borghesi europei solo apprentemente inoffensivi. Quello che viene fuori è una specie di ritratto di una umanità feroce e omicida inquadrata proprio mentre prova piacere a uccidere, anche se qualcuno di loro preferisce la parola “abbattere”. La felicità che accompagna lo spara e la sicurezza della morte della povera bestia che hanno trafitto ci fa stare male, non l’atto in sé.

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Crudo, ma anche assurdamente comico nella follia che Seidl riprende, Safari avrebbe sicuramente meritato il concorso. Ma, probabilmente, le assurde accuse di jacopettismo e di cinismo, hanno convinto i selezionatori a non sfidare troppo pubblico e critica, che hanno in gran parte evitato le proiezioni per la stampa del film. E’ un peccato, perché Safari, è una delle opere più belle viste in questi giorni a Venezia e uno dei migliori film di Seidl.

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