Il titolo suona meno strano quando si scopre che viene dall’I Ching, libro che Carrère ha spesso dichiarato di consultare con profitto e regolarità. E non a caso “Propizio è avere ove recarsi” si chiude con la storia di Luke Rhinehart, “L’uomo dei dadi”, autore e protagonista dell’omonimo libro–culto del 1971 che racconta la sua scelta di affidare ogni decisione della propria vita a un lancio di dadi: dove a ogni faccia corrispondevano opzioni sempre più distanti da quello che “avrebbe fatto” con il chiaro intento di spingere la personalità oltre i propri limiti fino, eventualmente, a disintegrarla.

Carrère è andato a trovare quest’uomo che all’epoca era considerato un guru, una specie di Timothy Leary con i dadi al posto dell’acido, e il cui libro nei decenni ha fatto proseliti in giro per il mondo. Ha scoperto che erano tutte balle: Rhinehart si chiama Cockfort ed è un simpatico anziano signore che vive da cinquant’anni con la moglie in una fattoria nel nord dello stato di New York. Tutto quello che ha raccontato lo ha soltanto immaginato essendo lui sempre rimasto fedele all’umile e granitica immagine di se stesso. Personalità multiple, mistificazione, imposture, vite che non sono le mie: ai lettori di Carrère fischiano le orecchie.

Incorniciato dalla sapienza orientale degli esagrammi e da questo racconto esemplare, il “nuovo” libro dello scrittore francese attraversa i temi e le ossessioni che hanno sostanziato le sue opere nel corso degli ultimi vent’anni. Vi sono raccolti materiali vari: reportage, saggi, conferenze, testi che anticipano o prolungano i suoi libri, introduzioni a opere altrui.

Sostenuto dalla prosa limpida, esasperatamente equilibrata e perfettamente ritmata che conosce bene chi apprezza Carrère, questo libro non è solo una raccolta di pezzi brillanti ma anche una frammentaria e preterintenzionale opera di poetica. C’è un testo su Capote – riferimento ineludibile per uno scrittore di non-fiction come Carrère (si potrebbe considerare questo libro come il suo “Musica per camaleonti”) – dove l’autore fa i conti con “A sangue freddo”. Il capolavoro di Capote, secondo il francese, pecca di flaubertismo: un narratore che ci fa credere – mentendo – di essere del tutto estraneo agli eventi raccontati.

Personalmente ritengo che la grandiosità di quel libro consista proprio nel modo in cui Capote è presente in ogni pagina senza il bisogno di dire io, ma è altrettanto vero che adottando la scelta opposta – l’onnipresenza esplicita dell’io – Carrère ha saputo ricavare alcuni dei libri più riusciti, nel genere in questione, degli ultimi decenni. Le considerazioni che emergono dagli altri pezzi portano spesso sulla questione della “voce” e sull’”onestà” del rapporto tra lo scrittore di reportage letterari e il suo soggetto. Dove è insistente un problema di legittimazione non solo personale ma direi anche socioculturale che rappresenta, almeno per me, un motivo di continua attrazione/repulsione nei confronti della sua voce, appunto.

Colto, raffinato, critico, autocritico, “radical chic”, ironico: fin dove può spingersi nella comprensione del mondo e nella capacità di immedesimazione negli altri chi declina così candidamente le proprie borghesissime formalità? Al di là dei contenuti sempre interessanti e dello stile impeccabile, il giudizio di valore sul narcisistico Carrère dipende anche dalla fiducia che siamo disposti a concedere all’intelligenza, alla capacità di empatia, allo stile di vita e alle ombre di quella upper middle class occidentale che lui stesso – perfettamente consapevole di ciò – incarna senza falsi pudori.

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