I treni e le navi di Dickens
“Io sono solo nella vettura. Solo al mondo”. Che viaggiatore era Charles Dickens, che grande compagno di strada doveva essere. Uno che riesce a fare la cosa più difficile mentre si sta su un treno: né leggere né scrivere eppure non annoiarsi, lasciare correre i pensieri senza dover rendere conto a nessuno dell’inerzia delle proprie idee e stupirsi di essere già a Parigi, eppure era ancora Londra all’alba.
Uno che in due pagine riesce fare l’elogio del bar, dove “pago dieci pence per il mio godimento” e dove alle persone comuni è assicurato il proprio posto. O l’elogio del cenare da solo al ristorante sotto gli sguardi prima di commiserazione e poi di invidia dei padri di famiglia circondati da bambini urlanti.
Di viaggi e di mare raccoglie le avventure più che note di Dickens negli Stati Uniti, quando arrivò preceduto dalla fama e se ne andò seguito da un certo astio per le pagine che scrisse deluso dalla società americana. Ma nella seconda parte ci sono resoconti inediti ed è in questi che si avverte lo spirito di quello che Dickens definì “viaggiatore non commerciale”, cioè non per lavoro. Pagine di treni e di navi, ballate di mormoni che emigrano, di birra e cozze nei locali dei docks di Londra, di tatuaggi, di annegati, di una voce dallo stomaco che sale continuamente quando si viaggia per mare e non tace mai.
E pagine sull’uomo, con le sue tragedie e la sua nobiltà, la morte e l’ironia che Dickens non smise mai di raccontare. Abbozzi più che ritratti. Come quello di un pastore che organizza la camera mortuaria sulla spiaggia per i naufraghi del Royal Charter. “Nel suo viso franco, nel suo umore allegro, espressione del vero spirito cristiano, ho visto rappresentato il Nuovo Testamento meglio che nei discorsi pieni di anatemi, reclamizzati con grande spiegamento di trombe, letti nel corso della mia vita”.
Di viaggi e di mare di Charles Dickens

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