Stava per compiersi, nell’anno in corso, un evento prodigioso che forse, ormai, non potrà più giungere ad effetto: l’incantesimo è stato infatti perlomeno incrinato. Dell’imminenza del miracolo, s’era consapevoli in pochi, fino a qualche giorno fa, e, come capita talvolta, meno si è, meglio è. Anche i più sfegatati propugnatori dell’allargamento della fruizione di qualsiasi bene naturale o culturale all’universo mondo, vanno poi a caccia, per il loro piacere o per il loro tornaconto, di calette appartate o di boschi solitari, di trattorie incognite o di accademie d’élite. E questa non è l’ultima né forse la peggiore tra le contraddizioni che la modernità nascente, prima, poi la matura hanno spiattellato e che la modernità putrefatta spinge adesso al parossismo. Orbene, in questo torno di tempo, qualcosa è mutato riguardo alla quantità di (in)consapevoli del prodigio cui s’è alluso, senza spiegare ancora per filo e per segno di cosa si tratta. Si proceda con ordine.

È il 2018. Fanno sessanta anni tondi dal momento in cui Il Gattopardo, opera nata dallo spirito del principe palermitano Giuseppe Tomasi di Lampedusa, ebbe, postuma, la sua pubblica epifania, con ciò che ne seguì. Ne seguì in effetti un putiferio, che non mette tuttavia conto di rimestare ancora. Chi lo facesse, lo farebbe infatti nello spirito di un Techetechetè, il programma con cui l’azienda televisiva pubblica italiana colma vuoti serali di una programmazione estiva scarna, a beneficio di coloro che nemmeno la stagione calda riesce ad allontanare dalle ritualità tipiche di quel medium obsoleto: d’elezione, anziani e anziane. Lo dimostrano gli inserti pubblicitari d’accompagnamento che, in folla, magnificano adesivi per dentiere, apparecchi acustici e rimedi per l’incontinenza urinaria. Gli stessi guai di cui certo soffrono coloro ai cuori dei quali e delle quali suonerebbero gradite, come le vecchie canzonette rimesse in circolo da Techetechetè, le belle polemiche di un tempo che fu sul Gattopardo e la politica o, per gusti più sofisticati, le zuffe tra letterati spesso connesse: opera di intrattenimento o di rottura? Proustismo di provincia o svelamento da una prospettiva ai margini della storia e della geografia? E con Freud, la moglie psicoanalista, i cugini spiritisti come la si mette?

 

 

Bene, s’è già a ottobre, quindi, in vista del Natale e pronti ad archiviare anche il 2018: con i suoi pochi consapevoli e con la sterminata folla degli ignari, l’anniversario gattopardesco stava miracolosamente passando sotto il più perfetto silenzio pubblico. “Si ebbe il buon gusto di non brindare e comunque, come disse don Calogero, le grandi gioie sono mute”, è d’altra parte il sardonico commento che la penna di Lampedusa assegnò a quel tipo di festeggiamenti cui si trovano a partecipare le vittime sacrificali (come appunto il principe Fabrizio nell’occasione narrativa), con pretesa che tali vittime si mostrino anch’esse gaie.

Nel passato, non c’è infatti stata celebrazione anniversaria di quel romanzo o di Lampedusa che si sia officiata senza che opera o memoria dell’autore non ne abbiano moralmente fatto le spese. Così vien fatto di dire, riprendendo una parola che compare con cruciale chiarezza tra le estreme e testamentarie che Lampedusa dedicò privatamente alla sua creatura: “Gradirei che il romanzo fosse pubblicato, ma non a mie spese”. Si sapeva destinato al cimitero nel giro di pochi giorni, se non di poche ore. Se a qualcosa il principe pare avesse tenuto nel corso della sua vita, era proprio a un accanito controllo della propria espressione. Di che spese, se non delle morali, si vuole parlasse da morituro? Pubblicata lo fu, la sua fortunata creatura. Che non lo sia stata alle spese cui egli si riferiva, è difficile giurarlo.

Intorno al fausto anniversario, durante l’anno in corso, c’era stato dunque un distinto silenzio. Più che inusuale, prodigioso. La vita culturale nazionale ha infatti sempre avuto un andazzo celebrativo, che le recenti e cogenti ragioni di mercato hanno peraltro amplificato. Non c’è ricorrenza letteraria di cui, con speranza di fare una pur modesta cassa, non si suoni ormai la grancassa. Non lo si stava facendo a proposito dei sessanta anni del Gattopardo. Lagnandosene, qualche giorno fa, ha appunto rotto il silenzio il figlio adottivo di Lampedusa, con un’intervista concessa a una gazzetta.

Come disinteressato amante dell’opera del principe palermitano, chi scrive non sa dire in coscienza se, di una sortita siffatta, si debba essere grati al suo erede o volergliene. Malgrado i grandi nomi di letterati di professione che vi vengono evocati o, forse, proprio a causa di essi e del chiasso che il loro consesso avrebbe fatto (come se, fuori delle ragioni commerciali, Il Gattopardo necessitasse ancora di simili consacrazioni), è lecito in ogni caso il sospetto che la sortita non si attagli alla figura di Lampedusa e che, in sostanza, ne sminuisca l’opera.

Non è del resto equivocabile ciò che, sotto la penna dell’autore, a proposito della nobiltà sostiene Padre Pirrone, personaggio collaterale ma tutt’altro che trascurabile del romanzo. Nella Parte Quinta (di solito trattata con sufficienza dai critici e negletta da lettrici e lettori), al gesuita, cane da mandria delle anime di casa Salina, è infatti affidato dal narratore il compito di spiegare il cruciale concetto. E, nel corso della spiegazione, ai suoi compaesani di San Cono, già addormentati (quindi, a chi legge il romanzo, sempre che sia in uno stato di veglia), Padre Pirrone confida l’esistenza di una prova sperimentale, in proposito: “L’ira e la beffa sono signorili; l’elegia, la querimonia, no. Anzi voglio darvi una ricetta: se incontrate un ‘signore’ lamentoso e querulo guardate il suo albero genealogico: vi troverete presto un ramo secco”.

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