Abbiamo visto “ Viviane “ diretto da Ronit Elkabetz, Shlomi Elkabetz.

Gira nelle nostre sale un piccolo film necessario, costruito sapientemente nei passaggi psicologici e nella costruzione drammaturgica. Dobbiamo andare nella periferia del mondo, in un ambito religioso ebraico assai simile a tutti i tribunali religiosi integralisti, per trovare una storia forte, con una costruzione sapiente e semplice, con attori bravissimi. Il titolo originale è  Gett – Il processo di Viviane Amsalem. Gett non è altro che il divorzio secondo la legge rabbinica, l’unica a decidere in materia giacchè non esiste una legge civile corrispondente. Un film forte, duro come la pietra, rigoroso, che ci risveglia dall’anestetizzante, se non stupidissimo, cinema italiano e sembra farci ritornare alla realtà proponendoci gli stilemi della tragedia greca; senza sangue ma con una violenza fatta di rituali religiosi e di ipocrisie di uomini fuori dal tempo. Il realtà, in certe circostanze, quanto ci sia di integralismo religioso e quanto di stupidità e pochezza umana non si può decifrarlo completamente; quanto di spirituale e quanto di terreno in certe scelte e in certi comportamenti di uomini senza importanza è difficile distinguerlo. E in certe realtà anche la frase che il marito deve dire pubblicamente accettando il divorzio ( ” Adesso sei permessa a tutti gli uomini ” ) sembra quasi una provocazione in termini, troppo forte anche per un marito che non sopporta più la moglie.

Tutta la storia è un lento, estenuante processo, per un divorzio che la donna chiede e che il marito non vuol concedere. Lui, silenzioso, altero e immobile come una maschera si fa forza di una legge arcaica che gli permette di negarle il divorzio. Lei è oramai disperata e sconfortata da tanta attesa. Eppure Viviane ha da quasi tre anni abbandonato casa e vive dalla sorella, negli anni del matrimonio lui l’ha fatta soffrire ma anche lei lo ha rifiutato e quindi questo matrimonio è fallito perciò non c’è più alcuna possibilità di recupero; ma l’uomo, pur soffrendo per l’umiliazione, non vuole per nessun motivo concederle il divorzio. E in Israele la legge rabbinica non concede tale possibilità ad una donna, perché non è giudicata un essere libero di scelta.

La storia si sviluppa nelle stesse stanze rabbiniche, dura oltre cinque anni, tra il rifiuto di lui di presentarsi in tribunale, tra l’ordine dei rabbini a lei di ritornare a casa per sei mesi prima di prendere una decisione, tra la difficoltà di far venire i testimoni, tra l’esasperazione e le provocazioni dei due avvocati che inalberano la coppia ma anche il tribunale che non vuole recedere su nulla, tra scatti di disperazione da parte di lei ad atteggiamenti insensati da parte di lui. Fino a che la coppia decide di parlarsi e in cambio di qualcosa, lui…

Viviane è il terzo capitolo di una trilogia iniziata con To Take a Wife ( 2004 ) e proseguita con Seven days ( 2008 ), ma non è necessario aver visto gli altri due film. Viviane ha vita totalmente autonoma e parte dallo stesso assunto del bellissimo Una separazione dell’iraniano Farhadi ma a differenza di questi si sviluppa solo come dramma legale. Un film costruito con grande abilità, un film raro e bello per chi ama ancora un certo tipo di Cinema. Si sarebbe potuto intitolare anche Scene da un divorzio, e una certa sapienza psicologica non è da meno dell’ultimo Bergman. Come viene subito alla mente certe ‘ assurdità ‘ alla Kafka e al suo “ Il processo “, non per niente durante il film viene detta la frase “ tutti siamo imputati “. Vogliamo segnalare i due protagonisti Ronit Alkabetz ( Viviane – coregista del film e notissima attrice israeliana di origini marocchine, sorella dell’altro regista del film Shlomi Elkabetz ) e Simon Abkarian ( Elisha – attore francese di origini armene ), ma una segnalazione merita sicuramente è Menashe Noy ( l’avvocato di lei, Ben Tovim ).

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