Se Il sacrificio del cervo sacro (The Killing of a Sacred Deer, 2017), da pochi giorni in sala, fosse il primo film che si vede di Yorgos Lanthimos forse per qualcuno potrebbe anche essere l’ultimo: molte scene e situazioni sembrano inventate apposta per confondere e provocare, come se la sceneggiatura (scritta, come sempre, assieme a Efthymis Filippou) e la regia perseguissero un progetto di inversa proporzionalità tra la riduzione al minimo delle emozioni mostrate dentro il racconto e, dalla parte opposta dello schermo, la quantità continua di reazioni previste all’esterno. Il perturbante, nel cinema di Lanthimos, non è una situazione portata alla luce drammaturgicamente, o articolata in parole, e nemmeno è un fatto interno, una condizione celata in pectore, quanto piuttosto un elemento completamente estrovertito, messo alla massima distanza dall’analisi e dal linguaggio verbale, per essere trasformato in situazione visuale estrema, come un cuore che pulsa a vista, da un torace aperto da un bisturi, e buttato addosso allo spettatore.

 

 

Chi guardasse Il sacrificio del cervo sacro scoprendo il suo regista soltanto adesso, potrà dunque sconcertarsi, divertirsi, appassionarsi, stabilire di aver incontrato uno degli sguardi più significativi e innovatori del cinema contemporaneo; oppure, viceversa, potrà decidere di farla finita, una volta per sempre, con un cinema così assurdo, surreale, ora perfino comico, ora fastidioso. Volendo usare una sola parola: incomprensibile. Volendo usarne qualcuna in più: che chiede di essere visto mentre si capisce, nel senso di contenere, un’esperienza di incomprensione – perciò, qui, diremo meno possibile della trama.

D’altra parte, malgrado il finale aperto e il rifiuto di una storia a soluzione unica siano nuclei forti della poetica di Lanthimos, se consideriamo questo suo ultimo film rimettendolo accanto ai quattro lungometraggi che lo hanno preceduto (Kinetta, 2005; Dogtooth/Kinodontas, 2009; Alps, 2011; The Lobster, 2015), ecco che per molti aspetti Il sacrificio del cervo sacro smetterà di sembrarci così strano, per formulare, invece, due domande cruciali che tutti i film di Lanthimos sembrano comporre, e riproporre, con la coerenza e la consapevolezza autoriale che si incontrano quando siamo di fronte a quella che, a tutti gli effetti, ormai si staglia come un’opera complessiva.

La prima questione attorno alla quale gravita la filmografia di Lanthimos, infatti, può essere sinteticamente fissata così: come rielaborare la perdita, una morte di solito, dentro un sistema di vita all’interno del quale è completamente sparito il referente che, nella tragedia greca, per esempio, garantiva la rielaborazione del trauma, vale a dire l’orizzonte extraindividuale della giustizia riconosciuta da una comunità – e che nei drammi antichi era impersonato dal coro. Tutti i film di Lanthimos allestiscono scenari distopici e paradossali che continuamente parlano di morti e di perdite. Anche le straordinarie locandine originali dei suoi lavori preparate da Vasilis Marmatakis raffigurano sempre immagini dove manca qualcosa:

 

Locandine di “The Lobster” (2015) e “Alps” (2011).

Perdite, mancanze, uccisioni vengono simulate, riportate in scena da singole persone o più spesso ristretti gruppi o nuclei famigliari, che agiscono in una situazione di solitudine e di scollamento assoluto da ogni principio di socialità o da ogni rimando a una possibile coscienza collettiva che possa favorire, come accade nei riti, una rielaborazione comune dei fatti. Kinetta, Dogtooth, Alps, The Lobster e Il sacrificio del cervo sacro evocano tutti, senza dirla o pensarla, ma servendosi del paradosso per mostrarla in assenza, questa sorta di postumanità dopo la catastrofe.

I personaggi, infatti, agiscono attraverso simulazioni e esperimenti che cercano di riprodurre fittiziamente, o di sostituire fittiziamente, una morte. Accade in Kinetta, dove un poliziotto e un fotografo, assieme alla cameriera di un resort, rimettono in scena dei delitti; in Dogtooth, dove un padre e una madre tengono i figli prigionieri, da sempre, in una casa bunker, illudendosi di tenerli al riparo dal mondo e evocando via via la morte di un quarto fratello; in Alps, dove un paramedico, un’infermiera, un’atleta di ginnastica artistica e il suo allenatore hanno messo su un gruppo che sostituisce a pagamento persone appena morte, per aiutare parenti e amici a superare il dolore della perdita; ancora, succede in The Lobster, il primo film internazionale di Lanthimos, dove i protagonisti, se sono o sono tornati a essere single, hanno quarantacinque giorni di tempo per riformare una coppia, o saranno trasformati in un animale a loro scelta.

Ma se questa continua tensione alla ricomposizione di un paesaggio, di una storia, di un corpo o di una relazione frantumati da una perdita avviene dentro un mondo che ha perso ogni contatto con gli altri (che esistono soltanto nella forma di relazioni famigliari o di aggregazioni coatte), ecco che arriva la seconda domanda tracciata insistentemente dal cinema di Lanthimos, anche a costo di esplorare i percorsi più grotteschi, che disegnano grandi spazi angoscianti, colmi di solitudine, dove rimbomba a vuoto, dentro la vertigine cercata dalle inquadrature dal basso, sfalsate e deformanti, nella messa in quadro di spazi grandangolari fatti per creare prospettive soffocanti, o, ancora, nelle riprese dall’alto, con un effetto di caduta libera, una domanda che ha smarrito senso e destinatario e che ciò nonostante ci viene ributtata addosso in continuazione: dove può esistere, dove si può ritrovare l’umanità, una volta che la la catastrofe si è compiuta?

 

 

Usando in ciascun film soluzioni di taglio che sembrano infilarci assurdamente, a caso, dentro il racconto, le risposte di Kinetta, Dogtooth, Alps, The Lobster, Il sacrificio del cervo sacro, sono le più paradossali, perché è come se lasciassero svolgere una situazione di perdita ormai consumata, ma che, proprio per questo, continua a esistere come feticcio, attraverso una relazione arbitraria e impazzita – in senso sonoro, visivo, simbolico e linguistico – tra significati e significanti. Ogni volta si riprendono grandi archetipi del mito greco (la metamorfosi, la struttura a inchiesta, il sacrificio) che sono fatti esplodere, o usati per preparare un’enfasi subito dopo sgonfiata nel grottesco, usando la musica classica (lo Stabat Mater di Schubert nel Sacrificio, i Carmina Burana di Orff in Alps) per creare effetti di rimbombo acustico e visivo dentro spazi del tutto inattesi. Sembra quasi di procedere alla cieca, come Edipo, senza riuscire a concludere. Il trauma è presente, ma è scarnificato, sedato: da una drammaturgia surreale, da una recitazione algida, da immagini sfocate (nei primi lavori), o da inquadrature a strapiombo che procurano vertigine, smarrimento e fastidio, come nel Sacrificio del cervo sacro:

Lo spettatore è ammutolito dalla visione, per via di carrellate tanto più lente quanto più sono colme di una tensione tanto più presente quanto meno è nominata. Si rimane agghiacciati dalla recitazione portata fino ai bordi dell’afasia, specialmente nell’ultimo film, attraverso i protagonisti, e in particolar modo Anna/Nicole Kidman, che per far sesso con il marito (sono entrambi medici) “gioca” a fare un corpo che ha perduto i sensi (e le emozioni) per l’anestesia:

 

Proprio il personaggio interpretato da Kidman, tra l’altro, può essere utile a riflettere meglio sulla regia de Il sacrificio del cervo sacro. Lanthimos ha preso l’attrice che più di tutte sa lavorare sulle corde dell’orgoglio altezzoso, quasi divino, per letteralizzare questa personale risorsa, portandola però fino ai bordi del grottesco, e renderla, proprio da questa strada, straordinariamente intensa e autentica proprio per quanto è finta. Anna, che entra in scena a una bella tavola di famiglia, distrattamente impegnata nel pensiero di nuovi divani per la sua clinica, nel corso del film diventerà infatti la maschera nuda perfetta di un dolore materno tanto più intenso quanto più scarnificato e asettico.

Suo marito, Steven Murphy (Colin Farrell) è un rinomato cardiochirurgo; hanno due figli, Kim (Raffey Cassidy) e Bob (Sunny Suljic). Nelle prime sequenze di Il sacrificio del cervo sacro non sono chiare le ragioni della misteriosa relazione che Steven intrattiene anche con un altro ragazzino un po’ più grande: Martin (Barry Keoghan), figlio, come si scoprirà più avanti, di un uomo morto per cause che probabilmente coinvolgono la responsabilità di Steven; e che scateneranno, nella seconda parte del film, una sequenza parossistica di gravi disturbi psicosomatici in Bob e Kim, che solo una scelta dolorosa da parte di Bob potrà interrompere. Il sacrificio del cervo sacro riprende, nei temi e nella struttura, alcuni grandi archetipi dei miti greci: il motivo del capro espiatorio, o delle colpe dei padri che ricadono sui figli, il sacrificio, la vicenda della tragedia Ifigenia in Aulide, di Euripide.

C’è il rischio del cinismo, in questo ultimo film forse più che altrove. Il secondo lavoro internazionale di Lanthimos contiene la possibilità e l’insidia che la cultura dei miti greci sia schiacciata, attraverso la trasformazione del perturbante in elemento puramente scenico e visuale, in un repertorio for dummies, in una pura operazione di divertimento che alla lunga potrebbe inaridirsi. Ma, almeno per adesso, è soltanto un rischio.

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