Del silenzio come bene comune

Il silenzio è un bene comune molto delicato; è come un pascolo o una fungaia o una fonte d’acqua, dove se io mi approprio sregolatamente della più parte del bene, ne tolgo agli altri il godimento (gli economisti chiamano questi beni, «rivali»). Come nel caso dei beni comuni tradizionali (acqua e pascoli) e dei nuovi beni comuni della conoscenza, beni «non rivali» studiati da Elinor Ostrom, anche il silenzio torna a ridestare attenzione man mano che lo si perde; talvolta non soltanto a causa di una generica diffusione di rumori industriali e urbani, ma proprio perché qualcuno che del silenzio è fobico gira una manopola, schiaccia un pulsante e lo distrugge, per sé e per gli altri. Qualcuno che non ama il silenzio e che impone le sue preferenze, perché non è vero che il silenzio lo amiamo tutti e ci dispiace perderlo.

 

I portatori di silenzio

Sono, coloro che lo amano, I portatori di silenzio? Lo dice nel titolo uno dei libretti-perle (“taccuini”) della collana dell’Accademia del Silenzio, fondata e diretta da Duccio Demetrio e Nicoletta Polla-Mattiot, quello del poeta Stefano Raimondi. Il silenzio dei poeti è diverso dal silenzio dei filosofi, dei mistici, dei sociologi, degli scienziati o dei musicisti. Per Raimondi si tratta del luogo nel quale il silenzio «ha luogo», trova posto, un posto dove possa crescere in intensità e mostrarsi nel suo silenzioso biancore. Il silenzio è il luogo in cui si può abitare allontanandosi dalla chiacchiera che lo stupra e lo offende, a cui occorre silenzio per farsi largo e spazio. Che il silenzio sia un luogo, un contenitore, un ricettacolo attraversato, talvolta rotto, da suoni e parole? Uno spazio torpido, in penombra, immobile, statico, forse persino un po’ stolido; uno spazio ovattato e acquatico dove entra, spezzandolo, la parola che esce dal tempo, la parola/suono mobile, veloce, penetrante?

 

Ph Lara Zankoul.

Tre domande

«Che cos’è il silenzio?», «Dove si trova?» e «Perché è più importante che mai?» sono invece le tre domande che si pone l’autore di un altro libro, per ora il più recente, sul silenzio, Erling Kagge (Erling Kagge, Il silenzio. Uno spazio dell’anima, Einaudi, Torino 2017, pp. 144, traduzione dall’originale norvegese di Maria Teresa Cattaneo [Stillhet i støyens tid. Gleden ved å stenge verden ute, © 2016 Erling Kagge]). Kagge è un editore-esploratore norvegese, nato nel 1963, che ha compiuto imprese leggendarie, per es. quella di raggiungere in sci il Polo Sud, in solitario, mettendoci cinquanta giorni, nei quali tra l’altro non poté mai cambiarsi la biancheria (lo racconta lui nel libro, le altre notizie sono di Wikipedia). È colui che per primo vinse la «la sfida dei tre poli», raggiungendo Polo Nord, Polo Sud e Monte Everest (sempre da Wikipedia). Insomma un avventuriero filosofo o un filosofo avventuroso, come lo ha definito il New York Times.

Protagonisti del libro, Kagge stesso e in piccola parte le sue tre figlie, che nel libro non hanno nomi ma numeri: 13, 16, 19 (anni). Soltanto figlie lo circondano, neanche troppo silenziosamente, venute al mondo forse per parto maschile, giacché di madre/i non v’è traccia. E ovviamente il silenzio, il silenzio interno che Kagge trova nella sua testa quando vive in città, a Oslo, e fa l’editore nonché il padre e il casalingo (l’idea di fondare una casa editrice gli venne in cucina, racconta, mentre lavava i piatti); e il silenzio esterno allorché vive le sue avventure nei luoghi dei grandi spazi e dei grandi silenzi, a cinquanta gradi sotto zero. Il suo non è comunque un silenzio spirituale: non ingannino titolo e sottotitolo in lingua italiana con quell’indebito riferimento all’anima, già che la traduzione dal norvegese suona ben diversa: Silenzio nel tempo di rumore. La gioia di chiudere fuori il mondo. Il silenzio è, scrive Kagge, «uno strumento per arricchire la vita» rifugiandoci nella nostra testa e chiudendo fuori il mondo.

 

Trentatré risposte

Alle tre domande Kagge propone trentatré risposte, basate sulle sue competenze di esploratore e le sue conoscenze di studioso. Trentatré come gli anni di Cristo? Come i grani della versione concisa del rosario islamico? Dubito. Trentatré forse, anche se non viene dichiarato, come i trentatré minuti secondi che sommati a quattro minuti primi formano l’opera musicale più silenziosa che sia mai stata composta: 4′33″ (si pronuncia Four minutes, thirty-three seconds o solo Four thirty-three), di John Cage. Si tratta di una composizione in tre movimenti, del 1952, per qualsiasi strumento o combinazione di strumenti, durante l’esecuzione della quale gli strumenti tacciono, e che consiste nei rumori di fondo che gli ascoltatori odono in quel lasso di tempo. Cage-Kagge: la struttura dei cognomi dei due estrosi personaggi amanti del silenzio è quasi identica, anche se la pronuncia è diversa. A che cosa possano corrispondere i quattro minuti di Cage nel libro di Kagge non sono tuttavia riuscita a immaginarlo, se corrispondenza c’è. L’esperimento di Cage venne comunque ripreso in forma di arte performativa da Marina Abramović nella sua opera The Artist is Present; per settecentotrentasei ore e mezza, al MOMA di New York, l’artista rimase a fissare negli occhi 1545 visitatori senza dire una parola.

 

Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere

Ben detto, commenta Kagge, riferendosi ora alla celebre asserzione di Wittgenstein, sulla quale per decenni gli esegeti del filosofo si sono scervellati. Se non riesci a dire le cose a parole indicale, oppure non parlare proprio, e qui Kagge inserisce il meraviglioso aneddoto della guida alpina che distribuiva agli escursionisti foglietti su cui c’era scritto: «Sì, è davvero fantastico» per evitare che essi passassero la giornata a dirsi e a dirgli quanto fosse stupenda la giornata invece di concentrarsi sulla giornata. Tacere si deve, o meglio silere, almeno per i parlanti delle lingue neolatine, giacché la lingua latina distingueva la quiete della natura e delle cose da una parte (silere) e quella degli uomini dall’altra (tacere). Silere appartiene al mondo della natura e delle cose inanimate, tacere al mondo degli esseri umani, anche se il non parlare proprio di taceo venne a un certo punto a occupare l’ambito semantico di sileo, finché il derivato di quest’ultimo, silentium, giunse a designare la tranquillità degli uomini e quella delle cose, la mancanza di rumori propria della notte e di luoghi solitari, come pure il silenzio di chi non parla.

 

L’ipotesi di Pascal

«La disgrazia degli uomini – scrisse Blaise Pascal – consiste nel non saper essi starsene tranquilli in una stanza». Tranquilli e in silenzio senza ascoltare musica, né leggere né scrivere e senza uno smartphone. Pare che sollevi grandissime angosce anche soltanto il provare a farlo per un intervallo di tempo tra sei e quindici minuti, tant’è che in alcuni esperimenti una serie di cavie umane hanno preferito subire dolorose scosse elettriche pur di farli cessare. Ai tempi nostri come ai tempi di Pascal, anche se allora non c’erano iPhones e MP3: eppure il desiderio di distrazione e di stimolazione era ed è ben presente.

 

I nuovi lussi

Il silenzio, aggiunge Kagge, è un nuovo lusso, un privilegio di classe. Purtroppo è vero e lo sapevamo già. I poveri vivono in ambienti più rumorosi, i ricchi se ne difendono come possono e comprano a caro prezzo lavatrici e auto silenziose. Talvolta fuggono via dal pazzo rumore e si rifugiano in strane e costose oasi del silenzio. Come un nuovo lusso è il buio, silenzio visivo che viene sottratto, rubato, dalle luci dell’illuminazione circostante, comprese le infinite lucine degli apparecchi che non si riescono a spegnere neanche volendolo (e che fanno sì che io abbia con me, quando viaggio e devo dormire in albergo, uno spesso nastro isolante nero per coprirle).

 

Come si raggiunge il silenzio?

Come raggiungere il silenzio non fa parte delle tre domande canoniche poste dall’autore di questo libro acuto, ingenuo talvolta, sempre garbato, in qualche caso stimolante, eppure la risposta trentadue si occupa proprio di questo, e suona: immergersi nella natura, lasciare a casa ogni dispositivo elettronico e procedere in una direzione finché non c’è più nulla e nessuno. Rimanere da soli tre giorni. E studiare bene la risposta trentatré: una pagina vuota, nel suo silenzioso biancore..

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