Abbiamo visto Io e te regia di Bernardo Bertolucci.

Se dovessimo scegliere come bandiera dell’Italia un artista vivente, probabilmente penseremmo a Bernardo Bertolucci. Figlio del grande poeta Attilio, fratello del compianto Giuseppe – anche lui regista di valore -; appena ventenne assistente alla regia per Pasolini con Accattone, a ventuno la prima regia con La comare secca, nel 1964 dirige Prima della rivoluzione una delle opere più importanti di quegli anni. Passa poi da un romanzo di Dostoevski (Partner tratto da Il Sosia) a un piccolo racconto di Borges (La strategia del ragno). Tra i due film gira – secondo noi – il

suo film più importante, creativo e ancora modernissimo nella regia Il Conformista, uno delle opere più belle degli ultimi quarant’anni: meno affascinante e suggestivo forse di Ultimo tango a Parigi ma sicuramente più solido e politico non certo nel senso etimologico del termine. E’ inutile continuare con la sua filmografia conosciuta da quasi tutti e ricordiamo solo che il suo ultimo film girato dieci anni fa è stato The Dreamers rivisitazione e rilettura personale del Maggio ‘68 e con qualche attinenza con quest’ultimo film, tenendo presente i presupposti emotivi, emozionali e anche politici che distanziano quegli anni ai nostri.

Il maestro Bernardo Bertolucci quindi torna oggi dopo che la sua malattia lo ha costretto su una sedia a rotelle e ad abbandonare il set per anni. Prende il romanzo Io e te di Niccolò Ammaniti (scrittore importante del panorama italiano odierno ma inferiore e sicuramente con meno respiro del maestro parmense, sempre se paragoni così impropri si possano fare) che sembra percorrere le stesse tematiche dell’ultimo Bertolucci, ed esce un film notevole, robusto, originale nelle psicologie dei due protagonisti ma sicuramente il risultato è un piccolo film a confronto dei suoi precedenti, e forse anche de L’assedio. Come se in Io e Te ci fossero le premesse (bertolucciane) di una storia importante ma poi messe in pratica viene a mancare l’epos e così ci svela che in fondo Ammanniti al cinema affanna e mostra dei limiti reali (pensiamo a Branchie, a L’ultimo capodanno).

Un ragazzetto brufoloso e terribilmente scontroso di circa quattordici anni (Iacopo Olmo Antinori, viso un po’ antipatico, ricorda il Malcolm McDowell dei tempi di If), vive con sua madre (la sempre convincente Sonia Bergamaschi) e con un padre lontano per motivi di lavoro in una confortevole casa dei Parioli a Roma. Gli è stato diagnosticato il disturbo narcisistico della personalità, ama starsene da solo, non ha amici e scarica le sue rabbie apparentemente immotivate sulla madre ansiosa e protettiva. E’ così inadeguato e stufo di tutto che approfitta della gita scolastica sulla neve di una settimana per fare solo finta di partire. Si fa accompagnare dalla madre all’appuntamento con i compagni ma torna indietro e va a rifugiarsi nella cantina condominiale con sette coca cole, sette succhi, sette scatolette e così via. Naturalmente ha con sé l’i-pod che ascolta a palla e il computer sempre acceso, l’intenzione è quella di non uscire da quel tugurio ben organizzato fino al sabato successivo.

Naturalmente c’è un imprevisto, una sera arriva nella cantina Olivia (Tea Falco, vista nella serie Il giovane Montalbano), sua sorellastra venticinquenne, pallida, tossica e con il trucco sbavato. Hanno il padre il comune e nient’altro, lei vive a Catania, fa la fotografa ma ha bisogno di soldi e di sdrogarsi per poter iniziare una nuova vita in campagna con un ragazzo che la vuole pulita. E’ venuta in quel posto per recuperare un bracciale d’oro che dovrebbe essere stato messo con alcune sue cose in una scatola. Il suo arrivo è accolto da Lorenzo con fastidio e rabbia, ma l’arrivo imprevisto squarcia il muro di solitudine del ragazzino che conosce appena sua sorella e praticamente non sa niente di lei e della sua vita. Sono due esseri al limite anche se quel limite è in luoghi differenti e lontani, due anime nella corrente che dopo essersi scontrati iniziano a conoscersi, trovarsi, accettarsi e forse anche volersi bene nonostante il luogo sia mefitico, caldo, claustrofobico.

La metafora è semplice, la cantina è un po’ come l’anima di questi due esseri disperati e non basta rifugiarsi o nascondersi lì per trovare la pace e il sollievo. Comunque il mondo li aspetta e bisogna uscire prima o poi. Questo è uno dei temi cari di Bertolucci, dalla casa vuota de L’ultimo tango a Parigi, alla casa de L’Assedio fino a I sognatori, tanto per citarne solo alcuni. Due esseri umani pur nascondendosi assieme restano individui soli. E dobbiamo ringraziare l’autore che pur inserendo una tensione anche sessuale tra i due questa non sfocia nel cinematografico incesto. Forse perché sono altri anni e gli orrori sono ben altri.

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