Abbiamo visto Kill me please – la morte dolce diretto da Olias Barco.
Dimenticate il titolo (non perché sia brutto ma è forviante), dimenticate le pubblicità o le brochure della produzione. Non è un film sulla dolce morte o almeno questa è presa da pretesto e da contesto per raccontare altro. Questo moderno regista che ha vari debiti creativi e narrativi col passato e il presente (dal cinema Kammerspiel, dei tempi della Repubblica di Weimar, quello di Friedrich Wilhelm Murnau e del romeno emigrato in Germania Lupu Pick; ma anche dal cinema del maestro spagnolo Luis Bunuel; o anche, più modestamente, assai vicino ai film di umorismo nero di Benoît Délépine & Gustave Kervern), ha costruito un film originale, anche in parte imprevedibile, ironico e nero, ma tuttavia anche se accettabile “il colpo di scena” della seconda parte ci sembra più un’idea originale e creativa che non una costruzione coerente del dramma. Abbiamo accennato al Kammerspiel, perché il film privilegia l’analisi intimistica e psicologica dei soggetti narrati e li segue come se fosse sotto una lente d’ingrandimento, li segue con un bianco e nero non intellettualistico o di rimando cinematografico, un bianco e nero distaccato e algido, quasi da non riconciliato; ma la componente grottesca e surreale ci rimanda anche al Bunuel della Via Lattea o di Belle de Jour (lì, il grottesco era rivolto al sesso, qui alla morte – ma le due cose non sono compatibili?). Riprendendo il pensiero iniziale, diciamo che il film non è sulla dolce morte, provocatoriamente potremmo dire che è solo un pretesto l’eutanasia, l’autore ci vuole raccontare della difficoltà del vivere e dell’impotenza nei confronti delle complicazioni della vita. Un mondo che alle prime difficoltà si arrende e che se ha paura di soffrire figuriamoci se non ha paura di una morte cruenta e quindi sceglie di andare in un elegante e crepuscolare castello nella campagna innevata e si lascia morire chi con champagne e splendida ragazzetta sopra, chi chiede di avere come ultimo pasto le stesse portate del giorno del matrimonio e chi vorrebbe cantare davanti ad un pubblico La Marsigliese. Quindi non devono essere particolarmente depressi se cercano il sesso o il cibo o stare al centro dell’attenzione prima della fine (lo sappiamo, Marco Ferreri non condividerebbe questa analisi e ci sbatterebbe contro La grande Bouffe).

Kill me please – la morte dolce è il secondo film del regista francese Olias Barco (il suo primo si intitolava Snowboarder (2003) – Gaspard è appassionato di snowboard, vuole diventare un professionista. Anche perché ha bisogno di sensazioni nuove e forti ed è in continua sfida con i propri limiti), è andato in Belgio a girarlo con pochi soldi, con una piccola troupe e in poche settimana e molte difficoltà perché l’idea della morte è un argomento completamente rimosso da almeno una cinquantina d’anni in Occidente (pensate al nostro Premier e a alla lotta che ha intrapreso con questo tabù passando tristemente – peggio del Don Giovanni – da una diciassettenne a una ventenne) e anche il Cinema – arte nonostante tutto coraggiosa – ha lasciato poche tracce sull’argomento, Harold e Maud, Kiss me, Non è mai troppo tardi, La mia vita senza me e per ultimo il film di Eastwood Hereafter, realizzando un ottimo film, piccolo, ironico, cattivo, ma non perfetto, forse un po’ traditore con se stesso, un po’ egocentrico in una storia che pretendeva assoluta ‘serietà’ nel messaggio.
Il Dr Kruger gestisce – anche grazie ad un finanziamento statale – in Belgio un castello in cui si pratica la dolce morte; secondo quello che dice e fa vuole dare un senso al suicidio. Ha creato una struttura terapeutica dove chiunque sia convinto del tutto può ricevere la morte come più preferisce. Kruger è separato dalla moglie, sta per affrontare un divorzio pesante, sta subendo un’indagine dalla finanza, la popolazione circostante è completamente ostile al suo lavoro e passa il tempo tra convincere persone a non morire e a rimboccare le coperte a chi è appena morto, eppure – nella sua nevrotica flemma – non perde mai la pazienza o ha scatti di qualsiasi genere, l’unico sfogo sono le sue corse quotidiane nella neve del bosco circostante il castello.
Nella sua clinica esclusiva giungono i personaggi più strambi, una cantante lirica che ha avuto il cancro e non può più cantare, un manager canadese che è stanco di perdere sangue dal naso continuamente perché da anni ha emorragie al cervello, un uomo che ha perso a poker tutto il danaro e anche la sua amata, un ricco erede lussemburghese con istinti repressi, una bella ragazza che ha bisogno di punture costanti ed è autolesionista, un vecchio cabarettista berlinese dalla voce rovinata e un depresso che vuole morire simulando una battaglia sul genere Vietnam. Dopo essersi consultati con Kruger sulle motivazioni che li spingono a morire ciascuno di loro ha diritto a esprimere un’ultima richiesta. Tutto procede con calma e ordine fino a quando scoppia prima un incendio nella cucina del castello e poi qualcuno inizia a sparare contro medico, infermieri e pazienti scatenando nei pazienti stessi quegli istinti naturali inespressi che potrebbero far cambiare idea sulla dolce morte. Ed anche il dottor Kruger.

Come abbiamo già detto, un film fuori dagli standard, con un cast perfetto, una regia sicura e senza orpelli. Ha ottenuto il Premio Marco Aurelio d’oro nell’ultima edizione del Festival Internazionale del film di Roma 2010.

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