Titolo e storia sono presi da un romanzo della scrittrice, sceneggiatrice e attrice uruguayana Laura Santullo, che per il regista e marito Rodrigo Plá ha scritto la sceneggiatura di Un mostro dalle mille teste. Classe 1968, uruguayano di nascita e messicano d’adozione, Plá ha esordito nel 1996 con il cortometraggio Novia mía, nel 2007 ha diretto l’ottimo lungometraggio La Zona e con Un mostro dalle mille teste (dal 3 novembre in sala per Cineclub Internazionale) ha aperto la sezione Orizzonti dell’ultima Biennale di Venezia.

Il film è ambientato nel Messico contemporaneo e racconta in forma di thriller una verosimile e drammatica storia di malasanità. La protagonista si chiama Sonia Bonet (interpretata dall’ottima Jana Raluy), ha un marito malato di tumore, la consapevolezza di potere salvarlo o quantomeno di fargli affrontare in modo meno doloroso il decorso della malattia, e l’impossibilità di farlo per colpa di un sistema sanitario inadeguato, corrotto e malgestito.

L’urgenza di aiutare il marito la porterà ad armarsi di pistola per affrontare uno alla volta i responsabili in grado di sbloccare la pratica. Al suo fianco nella missione di salvataggio e vendetta, più per caso che per volontà, c’è il figlio adolescente Darío (Sebastián Aguirre Boëda), emotivamente vicino ai desideri della madre (di aiutare il marito, di avere più giustizia) ma ancorato in modo più sano alla realtà.

“Il film è guidato dagli impulsi e le decisioni sbagliate della protagonista, Sonia”, spiega il regista, “la presenza del figlio è una di quelle scelte sbagliate. Il ragazzino rappresenta il buon senso e la razionalità che Sonia, sopraffatta dalle circostanze, in quel momento ha perso. Il figlio le ricorda l’esistenza reale, la vita quotidiana, la persona che era stata prima di quel momento. Darío è il suo collegamento con la terra, l’unico che può opporsi alla madre e mettendola in discussione farla tornare in sé”.

Costruito in crescendo, con i tempi e la suspense di una lunga rapina a mano armata, il film schiva il pericolo di schieramento di campo (tutti nella storia, a parte il malato, sono o si mettono dalla parte del torto esentando lo spettatore dalla necessità di giudizio) e usa la finzione come mezzo per trasformare singole realtà ed esperienze di malasanità in una verità emotiva più profonda e facilmente condivisibile.

“Non conosco nei dettagli il sistema sanitario americano”, continua il regista, “ma so che funziona in modo abbastanza simile a quello messicano. La privatizzazione della salute, la burocratizzazione dei servizi essenziali, la riduzione del cittadino a un consumatore i cui diritti sono limitati da una polizza assicurativa, sono problemi abbastanza ricorrenti nel mondo. Anche nei paesi dove la salute pubblica è garantita e funziona, c’è sempre il pericolo della privatizzazione. E con la privatizzazione si materializza il mostro dalle mille teste e nessun cervello. Il film è come un viaggio, una spirale di violenza che cresce e avanza dentro le viscere del mostro. Ci interessava in qualche modo alludere con il titolo al funzionamento delle corporazioni, alla dispersione della responsabilità tra più teste e alla distanza conseguente tra chi che prende le decisioni e il soggetto che alla fine paga le conseguenze”.

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