È difficile guardare La casa di Jack, l’ultimo film di Lars von Trier, presentato l’anno scorso al Festival di Cannes e uscito in questi giorni nelle sale italiane, senza metterlo in relazione con il film precedente del regista danese, ovvero Nymphomaniac, la storia di Joe (interpretata da Charlotte Gainsbourg e Stacy Martin) e del racconto delle sue esperienze sessuali. Un po’ perché anche qui il film ha la struttura di un racconto narrato a un anziano interlocutore che per l’intera pellicola fa da contrappunto alla serie di memorie in flash-back del protagonista. E un po’ perché questa volta Lars von Trier si è messo a riflettere in una forma speculare non tanto sul desiderio femminile e sulle sue aporie, ma su quello maschile e sulle sue ossessioni. E si sa che parlare del maschile è tutt’altro che facile, dato che di solito o si preferisce tacerne oppure si tende a nasconderlo dietro all’apparenza del neutro.

Nymphomaniac era non tanto un Bildungsroman sessuale (magari in forma perversa-pornografica) quanto il racconto di un desiderio femminile che emergeva attraverso due atteggiamenti diversi e incompatibili nei confronti della sessualità: quello di Seligman per cui il sesso era completamente comprensibile da parte del senso e della razionalità apollinea; e quello di Joe per il cui il sesso era invece un assoluto fuori-senso, un rifiuto di ogni possibile moralità, frutto di un corpo che non riconosceva alcuna regola o limite. Il punto era allora come il desiderio femminile – e quindi il corpo pulsionale femminile – non fosse riducibile a un’interpretazione di senso, ma giacesse al limite dell’interpretazione e della parola. Il desiderio maschile invece – come ci viene mostrato ne La casa di Jack – non è il controcampo di quello femminile, ma è tutt’altra cosa: è un desiderio che ha come primo problema quello del rapporto con la moralità e la legge. E infatti ci viene mostrato da subito in un confronto non con un uomo ambiguamente sedotto/seduttivo come era in Nymphomaniac – che si strutturava su un dialogo di tipo psicoanalitico, cioè alimentato da un transfert erotico – ma con un agente morale: in questo caso Virgilio, cioè il traghettatore verso l’Inferno. Insomma nel passaggio dal femminile al maschile, passiamo dalla psicoanalisi alla confessione, dal sintomo alla moralità, dall’isteria alla nevrosi ossessiva e al senso di colpa. E dunque che cosa cambia da un film all’altro?

La casa di Jack comincia con una confessione, o meglio con l’espressione di un bisogno di confessare. Quello che scopriremo essere Virgilio nel suo accompagnamento verso l’Inferno, dice in una schermata buia: “la gente sente uno strano bisogno di confessarsi durante questi viaggi, e non si può dire che molti di questi racconti abbiano una grande qualità letteraria. Ma non pensare che quello che mi dirai io non l’abbia già sentito prima”. In un certo senso il film è già tutto in questa frase: il desiderio di Jack avrà la forma di una confessione, ma quello che lui penserà essere qualcosa di unico, che definisce lui e soltanto lui, nella sua unicità di essere uomo – e che per Jack avrà la forma dell’unicità di un’opera arte assoluta – in realtà non sarà nient’altro che una delle mille ripetizioni dell’essere maschile. Essere maschi vuol dire “nascondere” il proprio desiderio: letteralmente chiuderlo in una stanza blindata e “congelarlo”, proprio come se fossimo in una cella frigorifera.

 

Jack è quello che in psicoanalisi si definirebbe un ossessivo. E non solo perché la sua vita è segnata già dalle prime scene da un’insistita ritualità di piccoli tic e regole ripetitive e procedurali (geniale in questo senso è la rappresentazione di Lars von Trier del tipico bisogno dell’ossessivo di andare a controllare se tutto è stato rimesso a posto ed è in ordine: “avrò pulito quella macchia di sangue?”, “avrò spento la luce?” diversivo del più classico: “avrò chiuso il gas?”, “dove sono le chiavi della macchina?” ecc.) ma perché il suo desiderio è sempre legato a una certa dimensione della Legge. Per l’ossessivo il desiderio ha sempre la struttura del “vorrei ma non posso”: vorrei, ma l’Altro che comanda me lo impedisce. E quindi io devo, mio malgrado, rinunciare a prendermi la responsabilità di quello che desidero davvero e obbedire alle leggi. Tuttavia l’ossessivo ha una relazione ambigua con la Legge: perché se da una parte è il più zelante tutore dell’ordine e delle leggi, dall’altra gode nel trasgredirle al riparo dello sguardo dell’Altro, magari nel privato della propria casa (e la costruzione della propria Casa, cioè dello spazio privato dove poter godere del proprio desiderio è il centro del film di von Trier). L’ossessivo apparentemente ubbidisce al Padrone, se non che poi ne fantastica continuamente (e a volte ne mette anche in atto) una trasgressione “smisurata” (che poi produce ondate di sensi di colpa e bisogni d’espiazione).

Nel momento in cui si avvicina al fuoco del desiderio, ecco che subito se ne ritrae per congelarlo in una negazione della vita. L’ossessivo vorrebbe che l’Altro gli dicesse che cosa deve o non deve fare anche se sotto sotto vorrebbe che l’Altro gli desse il permesso di godere senza alcuna mancanza e senza doverne pagare alcun prezzo. Sta qui tutta l’ambivalenza dell’ossessivo, che è alla base di quella dialettica letale, eppure profondamente radicata nell’inconscio collettivo, cioè nel modo di desiderare delle persone, che fa sì che desiderio e distruzione, amore e violenza, siano legate le une alle altre. È per questo che l’ossessivo rappresenta la struttura del desiderio (maschile) che da sempre ha sostenuto le società patriarcali, dove il ruolo della donna veniva equamente diviso tra quello pubblico di madre/moglie e quello privato/denegato di puttana. Ed è anche per questo che così tante espressioni maschili d’“amore” ancora oggi finiscano poi per tramutarsi in brutali episodi di violenza: non sono casi “isolati” (ma le statistiche lo mostrano in modo perfino troppo eloquente) ma conseguenze “logiche” (per quanto rispondenti a una logica aberrante) di un modo di desiderare maschile.

Jack, il protagonista del film di von Trier, mostra in continuazione questa doppiezza nei confronti della legge (“se penso a tutte le cose che ho fatto nella vita che non hanno comportato una punizione” dice a un certo punto): persona maniacale, organizzata, meticolosa nella gestione dei dettagli della propria vita, eppure brutale nell’esplosione del suo desiderio denegato (che non a caso, mano a mano che si “brutalizza” e diventa sempre più efferato, finisce per “curare” sempre più i suoi sintomi). E tutto il film è costruito attraverso un doppio movimento: man mano che tenta di costruire una casa dove poter godere del proprio desiderio di efferatezza senza più l’Altro della Legge, e tanto più le sue gesta vengono continuamente “esposte” agli occhi di coloro che dovrebbero essere i tutori di questa Legge. Von Trier costruisce attraverso il suo straordinario gusto per il comico – purtroppo assai poco sfruttato negli ultimi anni dopo Il grande capo e The Kingdom, che sono forse i suoi due film più geniali e sottovalutati – una serie di gag dove tanto più il personaggio interpretato da Matt Dillon tenta di farsi scoprire in ogni modo andando persino a urlare la propria colpevolezza di fronte a una macchina della polizia, quanto più lo sguardo della Legge non lo vede (o forse finge di non vederlo). La risoluzione del film infatti avverrà quando, in una scena platealmente allegorica dove non casualmente è proprio il controcampo di un mirino di un fucile che finirà per “vederlo”, Jake occuperà finalmente il centro dello sguardo dell’Altro. Ovvero, andrà… letteralmente, nel cuore dell’Inferno.

Eppure non è questo lo sguardo che l’ossessivo vorrebbe, quello cioè che finalmente gli permetterebbe di salvare capra e cavoli: ovvero di avere il proprio godimento solitario e privo di mancanza, e nello stesso tempo di essere al centro di uno sguardo di un Altro che gli permetta finalmente di trasgredire senza alcuna sanzione e senso di colpa. E questo è, tutto sommato, il vero enigma della Legge. Non è possibile avere entrambe le cose: non è possibile avere il godimento senza il senso di colpa della Legge. O per meglio dire, non è possibile avere un godimento che sia completamente libero dalla forma della trasgressione (che non è altro che uno degli effetti della Legge). Jack voleva creare nel godimento della sua casa al riparo della Legge l’unicità di un’opera d’arte che lo individuasse come singolarità originale e irrepetibile. E invece scopre, proprio al culmine del suo godimento, che dietro al godimento non c’è la singolarità, ma solo la ripetizione. Glielo dice anche Virgilio: tutti ci hanno provato eppure nessuno ci è riuscito. Ma Jack, da bravo maschio, vuole farlo lo stesso, perché lui, come tutti i maschi, si sente diverso dagli altri. Ma appunto, “non pensare che quello che mi dirai io non l’abbia già sentito prima”. Per essere davvero singolari e scegliere il desiderio, bisogna prendere una via molto più impervia e molto più difficile. Che forse non è quella narcisistica dell’unicità, ma quella transindividuale dell’inconscio.

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