Se l’umanità potesse fare un sogno comune, che cosa sognerebbe? Sognerebbe Moosbrugger, i suoi occhi dolci, la sua mitezza, la simpatia che ne celano il crimine. Queste, le conclusioni cui giunge Ulrich, l’uomo senza qualità descritto da Musil, in un mondo che di qualità – rispetto al residuo mitteleuropeo anni Trenta – ne ha ancor meno. Anche nei suoi sogni. Il sapere di Ulrich – ogni lettore lo sa – non ha valore, si disperde nella mediocritas e nell’indifferenza, mentre in Moosbrugger è il volere a non avere qualità. La volontà di quest’ultimo è ferma, ma indifferente alla tonalità morale dei suoi effetti. Per questo, più che occhi sbarrati – come quelli dei pesci, di cui parlerà Odon von Orvath – gli occhi di Moosbrugger riflettono un’umanità placida, se non proprio serena. Il suo sguardo, non meno della mediocrità di Ulrich, si intona a meraviglia all’air du temps.

Moosbrugger è dolce, simpatico ma – ecco il punto – è pure un assassino. La sua follia e, di conseguenza, la sua azione omicida possono accendersi e accadere in ogni momento. Come scoppi improvvisi di un rizoma che, impercettibile, si diffonde sotto la pelle delle cose. Ma che cos’è una follia che può irrompere in qualsiasi punto e in qualsiasi istante di una normalità senza più un centro? È un pericolo. Non è la follia – di cui ancora parlava Trakl – che «sogna la fronte di Dio». Non sogna, è sognata – e abbiamo visto come.

Leggendo le pagine dell’ultimo lavoro di Pietro Barbetta (La follia rivisitata. Umori, demenze, isterie, Mimesis, Milano 2014, pagine 180, 18 €) c’è da riflettere non poco su nodi e torsioni che, da due secoli almeno, avvincono il moderno (e i suoi “post-“), in un continuo incedere e recedere di concrezioni e sintomi, di esplosioni e repliche governamentali a questa follia. In una parola: su ciò che lega individuo e società, libertà e asservimento in un’epoca di doppia alienazione.

Alienazione è parola troppo carica, complessa e oramai desueta. Eppure, a dispetto della desuetudine, la sua valenza euristica rimane. A partire da Lessing, ad esempio, essa si configura come un movimento di scissione del soggetto (Trennung), al quale si può porre rimedio attraverso una riunificazione tra le parti scisse. Oltre la vita solitaria e priva di legami del singolo, però, in ambiente moderno alienazione significa ben altro: significa costitutiva perdita di un centro, scissione perenne senza ricongiungimento. Non c’è un centro a cui tornare, non c’è riunificazione possibile. Questo, a dispetto delle formazioni reattive che, proprio a partire da questa ambivalenza e da questo paradosso, nella seconda metà del XIX secolo prendono piede: rivoluzione e sintomo, Marx con Freud. «Così come la rivoluzione può accadere in qualsiasi momento», ricorda Pietro Barbetta, «senza preavviso, analogamente, avviene per la pazzia». Scoppia e, prima e dopo il probabile scoppio, come un fantasma si aggira per la spaventata Europa.

 

Hendrik Pot, il Carro dei folli, 1637

Non è un caso che la riflessione di Barbetta in questo ultimo libro parta da una rilettura costante del terzo capitolo della seconda parte della Storia della follia in età classica di Michel Foucault. Proprio nelle tre parti in cui è suddiviso il capitolo (Il gruppo della demenza; Mania e malinconia; Aspetti della follia), infatti, Foucault forgia nuovi ferri del mestiere per iniziare a comprendere in vivo le dinamiche del «grande internamento» che hanno portato le dimensioni ancora medicalizzate della follia – dementia, amentia, fatuitas, stupiditas, morosis – fuori del dominio medico. Fuori, eppure, al contempo, dentro quel mondo senza qualità che, anziché «curarle» ha iniziato a fare i conti con una nuova pragmatica delle manie: il «governarle». E governarle non può che significare: prevenirne lo scoppio, anticiparne l’accadere, impedire l’irrompere irruente nel quotidiano attraverso una costante attività di polizia dell’anima e dei corpi autoritaria quanto non mai.

Come ricorda Barbetta, infatti, il problema qui diventa quello della diagnosi assoluta: sei pazzo oppure no? L’autoritarismo moderno nasce così dall’idea che il pazzo è potenzialmente pericoloso. I sistemi penali – pensiamo al sistema tipologico nazista – verranno improntati alla prevenzione, in un passato che, nel Secolo Breve, ha avuto e ancora ha forme che fanno impallidire la pur fervida immaginazione del Philip. K. Dick di Minority report e delle sue «unità di precrimine».

La diagnosi assoluta diventa un problema fondamentale, non un semplice nodo tecnico, nel contesto del moderno e, ancor più, in quello ipermoderno. Per questa ragione – e un merito, tra i tanti, del libro è quello di sottolinearlo dalla prima all’ultima pagina, come una precisa scelta di ethos logico e etico – le pratiche istituzionali rimangono legate al bisogno di questa diagnosi assoluta. La domanda ritorna, inevasa, insistita: Moosbrugger è pazzo oppure no? E Ulrich? E noi? In una società senza centro, segnata dalla fine dell’asse cartesiano dell’Io, tutto può essere un centro, anche la follia, ma a quel punto nemmeno la follia sa più presentarsi sulla scena con gli abiti consueti. Se la follia scompare, il suo posto sulla scena viene preso da un altro protagonista: la diagnosi.

Dinanzi al rischio sempre aperto che la follia ritorni, assistiamo a una progressiva riduzione della complessità attraverso un procedimento che l’autore definisce sanitarizzazione del mondo. Al centro di questo procedimento c’è per l’appunto la diagnosi – tema a cui Barbetta ha dedicato gran parte dei suoi lavori precedenti. Nessuno, dinanzi a una «follia che accade» o si «manifesta» in forme ritenute socialmente rilevanti, va mai a vedere o ricostruire o, meglio, decostruire, il percorso che ha condotto a quella diagnosi. La diagnosi diventa così lo stigma che accompagna il soggetto. L’attribuzione di una diagnosi a un soggetto diventa così un atto performativo: ci dice e, dicendolo, lo autorealizza e lo invera, che cosa c’è là fuori o là dentro. Ci dice che «Marco», «Laura», «Giovanni» o «Enrico» è pazzo. Se si lega il soggetto alla sua diagnosi e, questa, lo accompagnerà fino alla fine, che ne è, in definitiva, del soggetto?

Oggi, dunque, la follia non si presenta più nelle forme descritte nella prima parte del libro. Non si presenta come nave o carro dei folli, come danza macabra o carnevale. Si presenta, al contrario, in forma di diagnosi. Non c’è, altrimenti detto, un dato immediato di follia. «Il sogno di tutti» di cui parlava Musil, ossia lo scoprirsi tutti simili al delinquente Moosbrugger, turba i limpidi sonni della ragione sanitaria, non meno di quanto turbasse quelli delle magnifiche e progressive sorti della crimonologia di fine Ottocento, ossessionata – si ricordi Scipio Sighele – dalla folla non meno che dall’uomo delinquente.

Qualcosa di potente, però, si è prodotto in questa piega del moderno, ed è la capacità del sistema di entrare nei codici del bios sostituendo ogni residuo di analisi differenziale – caratteristica della clinica medica – con una diagnosi assoluta, se possibile ancora e sempre più assoluta. Questa assolutezza si declina, oggi, nel binomio di invasività e pervasività.

Se nell’analisi differenziale i sintomi di un paziente permettevano – una volta legati in un ordine a suo modo coerente – di articolare una diagnosi e abbozzare un trattamento calibrato sulla differenza, in psichiatria il discorso verte sull’assolutizzazione e, di conseguenza, implica la fine delle differenze e delle specificità concrete. La pericolosità è oggettiva, non meno della “malattia”. Il soggetto esiste come conferma ex post della diagnosi che lo costituisce. Il soggetto si trova nella gabbia che lo definisce e lo amministra l’unica carta d’identità che gli consenta di stare al mondo.

Con la sanitarizzazione del mondo, assistiamo a un’accelerazione verso una sorta di biopolitica dell’umore unico. Pensiamo al termine “depressione”, che ha oramai soppiantato la “tristezza”. Oggi, osserva Pietro Barbetta, il mondo «sta diventando una gigantesca operazione sanitaria». Il piano sociale viene prima negato, poi fatto scivolare verso un cono d’ombra e, infine, scalzato. Ogni individuo diventa solo una “X” che nietszchianamente rotola lontano da un centro, ma solo per ricadere dentro una casella diagnostica.

«I problemi sociali vengono ridotti a questioni di cervello», annota Barbetta, «e i soggetti diventano un unico, grande soggetto cerebrale». Questa tendenza – che potremmo in qualche modo leggere in controluce anche nelle distopie di certi film di genere, come il recente Transcendence – ha però radici profonde.

Con metodo genealogico – quel metodo che percorre tutto il lavoro de La follia rivisitata – Barbetta individua questa matrice nella teoria dell’umore di Ernst Kretschmer (1888-1964), che stabilisce una erronea e ferale relazione tra costituzione corporea e temperamento. Una teoria che, nota Barbetta, ha una sinistra somiglianza con la teoria politica più nera. Qualcosa che, basandosi su una presunta evidenza e su nessi causa-effetto che appaiono lineari (e, proprio per questo, evidenti quando non lo sono), arriva fino alle soglie del nostro quotidiano. Qui, aprendo il Manuale Diagnostico Psichiatrico (DSM-V), ossia la Bibbia che solleva lo psichiatra globale dal peso della diagnosi, offrendone di confezionate e calibrate all’uso efficiente del tempo della cura, ci imbattiamo nella definizione di normalità che informa e, in qualche modo, inconsapevolmente rischiara questo sistema.

Chi è in piena salute? Il DSM-V ce lo dice: «Codice 100 – Funzionamento superiore alla norma in un ampio spettro di attività, i problemi legati alla vita non sembrano mai sfuggire di mano, è ricercato dagli altri per le sue numerose qualità positive. Nessun sintomo». Nessun sintomo: il grado zero della qualità, come l’Ulrich di Musil. Ricercato dagli altri per le sue qualità positive: come l’assassino Moosbrugger. I problemi legati alla vita non sembrano mai sfuggire di mano: è la vita stessa che, oramai, ha disertato l’esistenza degli uomini. Occuparci di questo e dell’inquietante sonno della ragione che ci ha condotti fino a qui è compito delicato, ma quanto mai necessario. Un compito che prevede una conoscenza tecnica ma – sembra suggerire questo la lettura dell’importante lavoro di Pietro Barbetta – non può ridursi all’ennesimo discorso tecnico. C’è una soglia antropologica che è stata abbondantemente superata e dobbiamo ricomporre,passo dopo passo, per capire se ci troviamo sull’orlo del baratro o se, semplicemente, abbiamo imboccato una strada senza uscita e dobbiamo umilmente ricominciare tutto. Dire semplicemente “no” può non servire a nulla. Ciò non di meno, proprio quel “no” è oggi, più che mai, necessario. Sintomo differente di quel poco o tanto che, in forma di parola e di libro, ancora può e deve insistere affinché l’intelligenza e la vita non prendano due strade diverse.

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