Oggi, 28 gennaio, si apre a Torino il processo contro lo scrittore Erri De Luca per “avere, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, pubblicamente istigato a commettere più delitti e contravvenzioni”.

Erri De Luca spiega le proprie ragioni, e confuta l’accusa, in un libretto, intitolato La parola contraria, appena uscito da Feltrinelli.

La questione, come viene posta dai magistrati, e come Erri De Luca volentieri riprende, ruota intorno al termine istigare. Si può assolutamente essere liberi di istigare? E cosa significa? De Luca, si definisce, in modo suggestivo, un “anarchico alla Orwell” che ambisce, nel suo piccolo, a istigare i giovani a “iniziare a essere apprendisti di una giustizia nuova, che si forma dal basso e sbatte contro la tutt’altra giustizia seduta sullo scranno del tribunale”.

Ma perché si dia “istigazione alla violenza” bisogna dimostrare la connessione diretta tra parole e azioni commesse. È difficile per l’accusa provarlo, visto che certi comportamenti “violenti” in Val di Susa sono anche precedenti alla presa di “posizione istigativa” di De Luca. Ma loro sembrano distinguere tra “opinioni statiche” (innocue) e “opinioni dinamiche” (che istigano). Quelle dello scrittore napoletano sarebbero appunto “opinione dinamiche” e quindi pericolose.

Ci pare che emerga, nelle parole dell’accusa, una mentalità ottocentesca che porta a un inquietante pregiudizio verso gli intellettuali che aizzano gli sprovveduti popolani (e che De Luca ha buon gioco a stigmatizzare e irridere). All’uscita dall’udienza preliminare (il 5 giugno 2014) i pubblici ministeri hanno dichiarato al “Corriere della Sera”: “Al barbiere di Bussoleno possiamo perdonare se dice di tagliare le reti, a un poeta, a un intellettuale come lui, no”. I pubblici ministeri si arrogano così una discrezionalità dell’azione penale (mentre, com’è noto, essa è un obbligo nei confronti sia di barbieri che di poeti) e si concedono un atteggiamento populistico che porta a perdonare gli “ignoranti” barbieri ed essere inflessibili verso “acculturati” scrittori.

Giustamente De Luca ricorda che: “Uno scrittore ha in sorte una piccola voce pubblica. Può usarla per fare qualcosa di più della promozione delle sue opere. Suo ambito è la parola, allora gli spetta il compito di proteggere il diritto di tutti a esprimere la propria”. E aggiunge che in quei tutti comprende anzitutto i muti, gli ammutoliti. Perché, oltre a quella di comunicare, la ragione sociale dello scrittore è seguire il dettame biblico: “Apri la tua bocca in favore del muto, a difesa di ogni derelitto” (Proverbi, 31,8).

Ovviamente De Luca non è né un muto né un derelitto. È un bravo scrittore (secondo me, uno dei migliori che abbiamo), e un sensibile traduttore della Bibbia. Si difende bene, come dimostra questo libretto, anche da solo (seppur, a volte, con argomentazioni poco usuali per un’aula di tribunale italiano; e infatti i suoi due avvocati pare siano preoccupati).

Va appoggiato, e non lasciato solo, proprio perché, al di là dell’opposizione alla TAV, in questo momento combatte per tutti una battaglia per la libertà di parola, coerente con l’Articolo 21 della Costituzione (che i suoi accusatori sembrano non aver ben presente): “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Verrebbe da aggiungere, per essere ancora più espliciti, con una brutta espressione assai di moda: “senza se e senza ma”. La libertà di parola, concetto del quale si è molto discusso recentemente (spesso a sproposito) in occasione della strage parigina nella redazione del settimanale satirico “Charlie Hebdo”, non può avere nessun limite se non quello, come sosteneva il filosofo polacco Leszek Kołakowski, che uno si dà da solo, e deve mantenere coerentemente, per questioni di rispetto, educazione o buon gusto.

Anche chi non condivide le opinioni di De Luca sulla TAV, e sul fatto che sia giusto fermarla anche tagliando le recinzioni dei cantieri con le tenaglie, non può pensare che sia condannabile penalmente per il fatto di averle espresse pubblicamente.

De Luca nota che sono molto cambiati i tempi e i modi dell’impegno, da quando Pasolini e tanti intellettuali e artisti firmavano e si dichiaravano a favore di cause più o meno rivoluzionarie: “Proviamo oggi a chiedere al firmamento del tappeto rosso una firma per la più innocente petizione”. Ma colpisce comunque il fatto che pochi scrittori italiani abbiano, in questi mesi, preso apertamente le difese del suo (e di tutti) diritto di parola.

De Luca conclude il suo libretto di autodifesa/accusa con la constatazione che, come è accaduto agli scrittori e agli artisti degli stati dove imperava la censura, “l’importanza attribuita alle mie frasi è per me un riconoscimento letterario”. E si sente così ulteriormente rafforzato nella convinzione che “da scrittore e da cittadino, la parola contraria è un dovere prima di tutto”.

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