Diamela Eltit, classe 1949, originaria di Santiago del Cile, sa resistere, sovvertire e creare. Ha tradotto in opere questi verbi, sfidando il mondo che ha prodotto e si è servito dell’ordine economico, politico e sociale illiberale instaurato dal golpe cileno. Eltit, insignita di numerosi riconoscimenti fra i quali il Premio nazionale di letteratura, è una delle voci più audaci e rilevanti del panorama letterario latinoamericano.

L’esperienza e la traccia fondamentale di Eltit sono comprensibili in un disegno nel quale arte e vita appaiono inscindibili. Nel 1979 con la nascita del Colectivo Acciones de Arte (CADA) la scrittrice insieme al grande poeta Raúl Zurita e suo marito fino al 1990, che subì la detenzione e la tortura del regime di Pinochet, il sociologo Fernando Balcells, gli artisti Lotty Rosenfeld e Juan Castillo ha realizzato molto più di una dissidenza e opposizione politica alla repressione culturale attuata dalla dittatura. Davanti all’inibizione violenta dell’espressività artistica, CADA ha animato l’urgenza di un rinnovamento teorico e pratico del campo artistico nazionale.

Allora come oggi Eltit, che ha costruito un’intensa attività accademica dall’Università della California a Berkeley a Cambridge, interpreta la complessità della vita culturale e politica cilena. Il paese in rivolta attraversa un profondo smottamento sociale con le donne in prima linea. Il suo ultimo romanzo Sumar coglie proprio la nuova centralità del femminismo nel contesto cileno e il movimento di protesta che lo scuote.

Alla fine di ottobre il Cile ha compiuto il passaggio storico del referendum che ha destituito la Costituzione del 1980, lascito del regime autoritario. L’assemblea costituente, composta da 155 persone con donne e uomini in pari numero, sarà eletta l’11 aprile del 2021 ed entro un anno dovrà elaborare il nuovo testo costituzionale.

Il primo romanzo di Eltit, Lumpérica, apparso nel 1983, è, usando le parole della studiosa Laura Scarabelli, un romanzo visionario nato come gesto di resistenza alla dittatura di Pinochet. Scarabelli, che è docente di Lingua e letterature ispano-americane alla Statale di Milano, in veste di traduttrice ha un ruolo chiave nel rimediare al lento e tardivo approdo di Eltit in Italia. Insieme all’editore napoletano Polidoro hanno portato il libro Manodopera (Alessandro Polidoro Editore, 168 pagine, 16 euro, traduzione di Laura Scarabelli), uscito nella prima edizione nel 2002.

Nel raffigurare la dinamica economica e in apparenza umana di un supermercato Manodopera rivela il cortocircuito tra la forza lavoro, che lo tiene in piedi, e il cliente. La merce da vendere fotografa il sistema di controllo e pressione su chi deve soddisfare le esigenze dell’acquirente e sopravvivere alla precarietà, all’alienazione dei ritmi della quotidianità. Il mercato segna la progressiva perdita dell’identità pure corporea nello scambio economico diseguale. Manodopera, caratterizzato da monologhi individuali nella prima parte e da una voce collettiva nella seconda, riesce a mostrare come le strutture del sistema produttivo invadano qualsiasi spazio privato.

Eltit, in che cosa consiste la sua origine palestinese?

«Il mio nonno paterno è emigrato in Cile dalla città di Beit Jala, in Palestina. Il Cile è uno dei paesi con il maggior numero di migranti palestinesi. Nella mia vita la presenza degli zii e zie arabi è stata costante. Da loro ho imparato l’importanza dell’ospitalità, della condivisione del cibo, della solidarietà».

Con quale desiderio ha cominciato a scrivere?

«L’attrazione verso la letteratura mi ha accompagnato sin da piccola. Sono stata una lettrice precoce e vorace. La scrittura è diventata per me un interrogativo permanente, perché ho sempre cercato di trovare una parola che fosse esatta e necessaria. Diventare scrittrice è stato un processo lungo e complesso. La mia vita è sempre stata attraversata dalla letteratura nello studio, nell’insegnamento e nella scrittura».

Lei ha anche disobbedito attraverso la letteratura?

«Più che di disobbedienza per me si tratta della ricerca di una zona di libertà nelle esperienze, nel gioco, nel lavoro, nel desiderio e nella ricerca di spazi marginali più opachi e inaspettati».

Manodopera ha venti anni alle spalle. È cambiato il mondo fuori?

«Mi sembra che le trasformazioni del mondo siano ambigue. Creano una relazione dialettica tra trasformazione e immobilità. La tecnologia è accelerata e trasforma le soggettività sociali, ma al tempo stesso le forme e le reti dei sistemi dominanti mantengono in vita il peso ideologico dell’egemonia culturale».

Come descriverebbe la struttura e la lingua di Manodopera?

«Nel mio lavoro letterario permetto che si liberino flussi di parole e di immagini, cercando una struttura che non ingabbi lo scorrere del pensiero. Trovare la lingua di Manodopera è stato molto complesso, soprattutto calarmi nella zona più violenta e sessualizzata del linguaggio, entrare nei registri normalizzati di diversi spazi sociali e tradurli in forma comunicativa. Questo esercizio mi ha aiutato a disarticolare la repressione. Riunire queste forme nella scrittura e riconfigurarle in una poetica scandalosa è stata una delle sfide che ho dovuto affrontare».

Quale inquietudine le evocano i supermercati?

«Il supermercato è uno spazio seriale, deliberatamente algido: gli scaffali, le luci, i prezzi, l’estetica. La continuità tra lavoratori e prodotti è espressione di un raffinato disegno capitalista».

La compravendita è l’unica dimensione del nostro stare al mondo?

«Penso che attualmente stiamo vivendo una profonda crisi della democrazia, nella maggior parte del mondo, i partiti politici non hanno agende convincenti, più che da statisti siamo governati da personaggi curiosi, eccentrici. Il debito è diventato uno stato dell’essere, del vivere, dell’abitare il mondo. Bisogna capire che cosa succederà, c’è sempre un fattore inaspettato, come l’attuale virus che ha incrinato il baricentro del mondo».

Pinochet è stato l’assicurazione dell’ordine neoliberale?

«Sì, la dittatura è stata la garanzia della realizzazione del progetto della ‘scuola di Chicago’, che ha privatizzato, ripartito e consegnato tutte le aziende statali nelle mani di una classe di imprenditori voraci. Ha generato una forma di plasticità della moneta che ha spinto fino al parossismo i sistemi di credito, mandando in mille pezzi il diritto del lavoro, amplificando le asimmetrie legate al genere. Nelle sue stanze segrete ha messo in scena una pedagogia della sottomissione di fronte al terrore determinato da uno stato criminale, dalla prigione politica e dalla tortura».

Quali sono il ricordo e le sensazioni più nitide dell’undici settembre 1973?

«Gli aerei di guerra che quasi sfioravano i tetti delle case, anche della mia, la terribile angoscia di fronte alla implosione di un progetto di emancipazione come quello di Allende, lo stupore e il terrore di fronte al bombardamento del palazzo della Moneda, il turbinio di emozioni nello sforzo di comprendere ciò che stava accadendo quel giorno».

Che cosa significa opporsi a una dittatura?

«Dalle azioni concrete nell’ambito artístico alla creazione di comunità antidittatoriali per poter far fronte al passare dei giorni, delle settimane, di diciassette lunghi anni».

Come dialoga con la memoria dell’oppressione?

«L’oppressione abita una parte importante di me. Ogni volta che vedo l’immagine di un desaparecido devo fare fronte a qualcosa di indelebile, la massima pena materiale, corporea, per le vittime e provo lo stesso, intenso odio per la dittatura. Una volta ancora, e ancora, sperimento la stessa sensazione, intrappolata in un tempo congelato, identico a sé stesso, ripetuto».

Perché l’avvento della dittatura in un paese alla fine del mondo ha segnato la politica e la società su scala globale?

«La cosiddetta “via cilena al socialismo” è stata una esperienza non solo pratica, ma anche dotata di un solido bagaglio teorico che ancora oggi risuona nell’immaginario politico a livello mondiale».

Quali fattori interni e internazionali hanno costruito la longevità politica di Pinochet?

«Il fattore interno è una destra che ha amplificato al massimo il suo potere economico e che vede alcuni cileni tra gli uomini più ricchi del pianeta, tra cui l’attuale presidente della Repubblica. Una destra corrotta, che ammette sistematicamente i ripetuti atti di corruzione dei parlamentari che la costituiscono e che mettono di continuo sotto frizione il limite tra servizio pubblico e interessi privati».

È rimasta sorpresa dall’esito della declassificazione dei documenti che confermano il ruolo statunitense nell’ascesa di Pinochet?

«Assolutamente no. Lo stesso governo di Salvador Allende aveva portato avanti tale denuncia, i documenti sono stati solamente una ulteriore conferma, dopotutto gli Stati Uniti si sono sempre dati licenza di intervenire nei più disparati ambiti politici di diversi paesi al fine di riaffermare la loro supposta egemonia mondiale».

Definirebbe compiuto il processo della cosiddetta transizione cilena? E che cosa è stato?

«La transizione è attualmente in corso, non è un processo concluso, perché insieme alla nuova Costituzione è necessario un ripensamento radicale dell’atteggiamento degli ultimi anni, nei quali l’ ‘io’ si è imposto sul ‘noi’ e, in definitiva, ha condannato milioni di cileni all’invisibilità e alla solitudine sociale. La Transizione ha avuto il merito di porre fine ai crimini di Lesa Umanità e alla violazione dei diritti umani. Tuttavia nell’attuale scenario politico, caratterizzato dal cosiddetto ‘sollevamento sociale’ del 2019, tornano ad apparire morti, feriti, prigionieri politici. Tutto ciò apre a una situazione inedita e imprevedibile».

Quale scenario propone l’esito referendario, che ha rimosso la Costituzione del 1980, e quali potrebbero essere le premesse della nuova Assemblea costituente da eleggere l’anno prossimo?

«La cosa più importante è mettere un argine alla impune estensione economica del capitale privato e rompere la nozione di Stato Sussidiario garante di proventi, rinegoziare  la proprietà delle ricchezze naturali del paese, e fare in modo che lo Stato si occupi delle fasce più deboli. Certamente si dovrà porre particolare enfasi alla questione dell’equità di diritto, ma tutte queste parole per ora sono ancora retorica perché le condizioni attuali, le smentiscono in ogni istante».

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