L’incipit più eloquente della narrativa italiana recente – il libro è troppo bello per trovarlo stivato in qualche scaffale librario, s’intitola Tutte le voci di questo aldilà – allinea, con catatonica nitidezza, i nomi dei poeti & degli scrittori dall’infelice sorte. Pressoché tutti, insomma: da Emilio Praga, “morto a trentasei anni corroso dalla ‘fatina verde’, ovvero il distillato di Artemisia asinthium” e Gérard de Nerval, che “si impiccò in una strada di Parigi”, si passa per i rioni di Georg Trakl, Sylvia Plath e Marina Cvetaeva, si lambisce la reclusione di Vladimir Holan e di Clemente Rebora, la fine di Pavese, di Michelstaedter, quella di Paul Celan e di Attila Józef. Misticamente ironica la sintesi cui giunge Andrea Temporelli, autore di quel libro memorabile: “Resta da capire perché ci siano così tante persone che ancora oggi si dannano l’anima pur di diventare poeti famosi, cioè, squinternati-morti-di-fame”. È inevitabile: il poeta muore la propria opera, altrimenti scherza – e noi abbiamo denti da lince e poca voglia di ridere. Scrive, cioè, sempre, in condizione di pericolo: nel pericolo, ad esempio, di non sapere più articolare un verso, di smarrirsi, di intuire una realtà, una verità che rende pallidi i propri fogli, flebile enigma, un buco bianco. Scrive per scontentare gli altri, per ulcerare la propria reputazione – reputandola uno sputo – per farsi malvolere. Un uomo che non tenda ai morti e non abbia mai meditato la propria morte, semplicemente, non può scrivere: perché la morte è tutto l’al di qua della vita. Questa – la meditazione sulla morte – non è un vago revival del ‘maledettismo’ modaiolo; è un tono maturo, sano, l’indole necessaria di chi si avvia alla scrittura. Che, in fondo, significa pugnalare un foglio, l’altro se stesso. Se tutti gli scrittori hanno, almeno una volta, scelto la morte, non tutti sono morti, per fortuna nostra. Su “El País” Manuel Vicent ha scritto un articolo curioso, Escritores suicidas frustrados, raccontando il suicidio mancato di Joseph Conrad e di Hermann Hesse. Il confronto con la morte, appena sfiorata, costituisce per entrambi una svolta. In particolare, il “maldestro” tentativo di suicidio di Conrad, accaduto nel 1878, quando aveva poco più di vent’anni, dopo una clamorosa perdita al gioco, sarà ammantato di leggenda: “Successivamente, Conrad attribuirà la cicatrice ad un romantico duello, combattuto per questioni d’onore; ma una lettera dello zio parla chiaramente di tentato suicidio, azione assai disonorevole per un gentiluomo polacco, e per di più cattolico, che va quindi nascosta” (Mario Curreli). Lo scrittore – Orfeo con le mani a forma di specchio – abita la morte, certo. Ma è pure un mentitore impenitente. (d.b.)

 

L’elenco degli scrittori che hanno preferito andare all’altro mondo per continuare a scrivere è magnetico e pressoché infinito. Dai classici, Socrate, Seneca e Petronio, passando per Ángel Ganivet e Gabriel Ferrater, fino ai celebratissimi, Salgari, Jack London, Virginia Woolf, Stefan Zweig, Sylvia Plath, Cesare Pavese, Walter Benjamin, Hemingway… l’elenco non si chiude mai perché questo è un lavoro che si fa sul bordo della scogliera, cioè sul ciglio del proprio io, sempre sulla soglia del cadere, del crollo. Eppure, ci sono stati due grandi scrittori che sono diventati tali perché nella tormenta della giovinezza, nonostante ci abbiano provato, non sono riusciti a uccidersi. Mi riferisco a Joseph Conrad e a Hermann Hesse.

Quando ci si imbarca, di solito, i marinai si dividono in due categorie: chi lo fa smosso dalla tristezza, lasciando moglie, figli, amici e piaceri di terra; e chi sale a bordo felice di voltare le spalle ai debiti, alle liti, a false promesse d’amore, mettendo tra sé e il proprio mondo un oceano. Conrad apparteneva a questa classe di marinai. “Uomo libero, amerai sempre il mare”: quel verso di Baudelaire sembrava adattarsi perfettamente a lui. Sulla terra era una creatura scossa dall’inquietudine; il mare lo rendeva vigile, rigoroso, libero. Di ritorno dal primo viaggio alle Antille, sbarcato a Marsiglia, in attesa di arruolarsi su un’altra nave, Conrad fu nuovamente divorato dai debiti: afferrò una pistola, per risolvere il problema. Il proiettile gli lambì il cuore, senza ucciderlo. “Se devo essere un marinaio, sarò un marinaio inglese”, si disse, in ospedale, mentre curava l’infortunio. Scalando i gradi, realizzò il proprio intento: diventò primo ufficiale della marina mercantile britannica, solcò i mari dalla Cina alla Nuova Zelanda, incorporando nel suo spirito i venti di Sumatra, del Borneo, del Golfo del Bengala; varcando il cuore dell’Africa attraverso il fiume Congo, condividendo le proprie imprese con uomini eroici e senza cuore, che in seguito avrebbe trapiantato nei propri romanzi. L’espiazione e il rimorso di Lord Jim, la calma in reazione alla sfortuna di Nostromo, il mutamento repentino di passioni e di onde in Il negro del Narcissus, l’indagine nei recessi della miseria umana di Cuore di tenebra: elementi propri dello scrittore che si misura con il mare. Conrad non ha scritto una pagina ridicola, non si è mai lasciato scomporre. La vita a terra era tutt’altra. Ringraziamo che il proiettile lo abbia graziato.

Hermann Hesse, piuttosto, navigò i mari non meno tempestosi della coscienza religiosa. Cresciuto in una famiglia di fanatici pietisti, giunse all’adolescenza sopraffatto dalla Bibbia. I Salmi, l’organo e le preghiere costituivano il suo principale sostentamento, che alternava alle passeggiate nel prato, le chiacchiere con gli uccelli, i tuffi nel lago, d’estate, le verità apprese dagli elfi del bosco, l’amicizia con il calzolaio, il macellaio e gli artigiani della città tedesca di Calw, dove era nato. La vitalità del ragazzo si scontrò presto con la vita oscura dei familiari, che lo avevano destinato alla chiesa, per diventare un unto del Signore: Hermann Hesse, tuttavia, lottò fino alla fine della sua vita per decidere della propria personale consacrazione. Non poteva comunque evitare l’inerzia cupa dei genitori: nel seminario di Tubinga, Hesse diventò un adolescente pallido, che ricordava con nostalgia la libertà dell’infanzia, passata tra i pioppi neri e gli ontani del lago, il silenzio della neve tra gli abeti, il rapporto con gli animali, le piante, le stelle. Un giorno scalò il muro del seminario. Voleva fare lo scrittore, ma quella scelta non fu percorsa impunemente. I genitori affidarono il ragazzo a un centro di riabilitazione. Lo portarono perfino da un esorcista. Lungi dallo schiumare bava e rabbia, il ragazzo immaginava l’albero su cui il suo corpo sarebbe stato appeso, tra i canti degli uccelli; oppure, si vedeva annegato nel cuore del lago, lo stesso in cui si tuffava nei giorni felici. Hermann Hesse non si sarebbe mai dimenticato dello sforzo fatto per liberarsi dai propri legami; un giorno annodò la corda con l’intento – poi fugato – di impiccarsi. Negli anni Sessanta, quando i ragazzi partivano, zaino in spalla, verso i luoghi iniziatici del pianeta, insieme a una piccola scorta di marijuana portavano con sé tre libri inevitabili. Demian, Siddartha e Il lupo della steppa.

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