Ágnes Heller, allieva di György Lukács ed esponente di spicco della cosiddetta “scuola di Budapest”, è stata una protagonista della rassegna Libri come, realizzata recentemente all’Auditorium Parco della Musica. L’abbiamo incontrata in quell’occasione.

La filosofa ungherese di origine ebraiche, classe 1929, sopravvissuta all’Olocausto, una delle intellettuali più influenti del Novecento, continua a esercitare la propria dissidenza ed essere una voce critica nel cuore dell’Europa proiettata verso le elezioni di maggio.

In libreria c’è la sua ultima fatica: Orbanismo (Castelvecchi, 65 pagine, 9 euro, traduzione di Massimo De Pascale e Federico Lopiparo). È un’analisi dell’Ungheria e dell’Europa vista da est nel tempo del Premier ungherese Viktor Mihály Orbán.

Heller, a poche settimane dal voto per lelezione del parlamento europeo qual è latmosfera politica e sociale a Budapest?

«Il partito Fidesz di Orbán ha già un atteggiamento trionfante. Si aspettano che dalle urne esca un’Unione Europea a loro immagine e somiglianza. I partiti di opposizione hanno nuovamente fallito nella formazione di una lista comune contro Fidesz. Sperano, si affidano alla buona sorte o a un miracolo per ribaltare un esito che sembra già deciso».

Lei ha scritto che le prossime elezioni europee assomigliano a uno spartiacque come il luglio del 1914, allalba della Prima Guerra Mondiale. Che cosa sostiene il parallelismo storico?

«Una pace duratura per due generazioni, il desiderio di cambiamento e la crescita del nazionalismo etnico. Chi poteva immaginare, anche nei suoi incubi peggiori, che sarebbe scoppiata una guerra europea nel 1914? Chi poteva immaginare, anche nei suoi incubi peggiori, l’autodistruzione dell’Ue all’inizio del nuovo millennio? E proprio all’apice del successo, in modo brusco e inaspettato, la minaccia del crollo è divenuta reale. Sui libri di storia si possono leggere cose assai simili a proposito del luglio 1914. L’inizio della fine non è ancora storia, ma futuro. Il futuro è libero nel senso che è aperto. È aperto fino alla fine di maggio».

L’Unione Europea è a rischio?

«Gli antichi nemici d’Europa, Francia e Germania, sono divenuti alleati, lo stato sociale ha garantito a tutti una vita migliore. I conflitti sociali e politici che emergevano sono stati portati avanti da diversi attori politici in maniera essenzialmente pacifica. Lentamente si è costituita l’Unione Europea, le ultime dittature d’Europa sono scomparse e infine anche il Muro di Berlino è stato demolito. La democrazia è sembrata avere la meglio. Ora siamo in una fase nuova e pericolosa. A dire il vero, se la leadership dell’Ue non fosse stata burocratica, se i partiti e le famiglie politiche non avessero perseguito solo i loro interessi particolari, se avessero appreso qualcosa dal passato europeo, le imminenti elezioni non sarebbero diventate l’inizio della fine».

Si aspetta un sussulto europeista?

«Credo che crescerà l’influenza dell’etno nazionalismo e un ribaltamento del processo cominciato dal famoso incontro tra Adenauer e De Gaulle».

Che cosa rappresenta per l’Europa l’Ungheria guidata da Orbán?

«In Ungheria e Polonia, che non hanno una salda tradizione democratica, certe tendenze politiche generali dell’Europa si manifestano più precocemente, con maggior forza, e in una forma più “classica”, che in qualsiasi altro Stato europeo. L’avversione della periferia nei confronti del centro dell’Ue, è in grado di risvegliare o ricreare in questi Paesi un nazionalismo etnico, retaggio della storia, che può essere agitato e utilizzato da attori politici privi di scrupoli per accaparrarsi un potere incontrastato. Però si è presto compreso che l’“Orbanismo” non è una specialità esclusiva dell’Europa orientale, ma può servire da modello per la conquista e l’uso del potere politico in molti Paesi europei, forse nella maggior parte di essi».

In che modo Orbán ha costruito la curva del proprio consenso?

«Scegliendo dei nemici in assenza di una consolidata tradizione democratica. Ha creato un monopolio mediatico. La nuova Costituzione, legge fondamentale dello Stato, non è figlia di un patto sociale e compromesso politico alto, ma è il prodotto di un partito, Fidesz. Viene emendata ogni volta sia necessario far approvare leggi anticostituzionali. Il potere non è bilanciato, non esistono contrappesi ed istituzioni indipendenti, a cominciare dalle università».

È in grado di valutare la reale influenza di George Soros, assurto a questione politica globale?

«Soros è ricco, americano, un ebreo di origine ungherese: racchiude tutti gli elementi affinché le persone siano pronte a odiare. Ed è anche attivo politicamente, marcando una sostanziale opposizione a Fidesz. Il nemico ha bisogno di una faccia e qualcuno costruisce il bersaglio: funziona. È un capro espiatorio perfetto».

Sulla parola populismo si fa molta confusione, lei opera una distinzione concettuale.

«Il nazionalismo etnico viene erroneamente etichettato come “populismo”, perché fa appello al risentimento popolare. A differenza del populismo, tale risentimento è rivolto, non contro le classi abbienti dello stesso Paese, ma contro gli “altri”, come l’Ue, i migranti e le politiche liberali, razionali e pragmatiche. Il fondamento sociale di questa nuova ondata di nazionalismo etnico è la trasformazione delle società di classe in società di massa, l’autodistruzione dei partiti tradizionali, il ruolo crescente delle ideologie per il consenso popolare e infine l’“incontro” sotto il vessillo del nazionalismo etnico».

A trentanni dalla caduta del Muro di Berlino si aspettava questo mondo?

«No. Ma sa, ho vissuto a lungo e ho visto troppe cose per lasciarmi sorprendere».

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