Viggo Mortensen non è il tipico attore hollywoodiano. Sarà per questo che Matt Ross l’ha scelto per il ruolo di Ben Cash, un padre anarco-primitivista che ha deciso di vivere con la famiglia nel cuore di una foresta, lontano dall’influenza della società consumista. Sguardo malinconico, barba 5 o’clock shadow e maglioncino da scampagnata domenicale, Viggo Mortensen è seduto su un divanetto nel giardino dell’Hotel de Russie. Sembra infreddolito, eppure risponde generosamente alle domande dei giornalisti. Il suono della pioggia autunnale accompagna le sue parole cadenzate, in cui l’inglese talvolta cede il passo a un buon italiano. Lo statunitense è nella Capitale per presentare Captain Fantastic: road movie diretto dall’attore Matt Ross, dove interpreta il ruolo di un padre fuori dagli schemi, un personaggio con cui condivide la fama di irregolare. Nato da madre americana e padre danese, Mortensen ha trascorso l’infanzia in una zona rurale dell’Argentina, dove ha imparato a pescare e cavalcare, dopo il divorzio dei genitori ha lavorato in Danimarca come camionista, fioraio e cameriere, per poi tornare negli Stati Uniti con il desiderio di studiare recitazione. Musicista, editore, pittore, poeta e fotografo, è un uomo che ama sorprendere innanzitutto se stesso, perché, come ha detto qualche tempo fa, “non ci sono scuse per sentirsi annoiati, Tristi, ok. Arrabbiati, va bene. Depressi, sì.  Folli, anche. Ma non ci sono mai scuse per la noia.”

Ultimamente ha spesso interpretato il ruolo del genitore, penso a A History of Violence, The Road, Jauja e ora Captain Fantastic.

Penso sia frutto del caso ma forse, come si dice, non esistono le casualità. Non sto cercando questi ruoli, semplicemente ho la mia età. Quando si va verso i sessanta, è normale interpretare il ruolo del padre.

E Viggo Mortensen che padre è?

Cerco di fare del mio meglio. Nel film ci sono momenti divertenti e momenti brutali legati al comportamento di Ben, che protegge la sua famiglia adottando un comportamento moralmente intransigente. Io mi sento distante da lui, eppure m’identifico nel suo desiderio di non mentire ai figli. Apprezzo la sua voglia di piena sincerità. Ma quello che unisce questo modello di famiglia è la comunicazione. Anche se a un certo punto il padre si rende conto di aver preso la strada sbagliata, perché ha isolato i suoi figli dagli altri ragazzi del mondo, c’è ancora rispetto reciproco tra loro e con un po’ di elasticità possono continuare a essere una famiglia. Il rischio di non capirsi nasce dalla mancanza di comunicazione, basta guardare a quello che succede negli Stati Uniti.

So che lei è figlio di genitori divorziati.

I miei genitori sono stati più tradizionalisti rispetto a quelli del film: mia madre stava in casa la maggior parte della settimana, mentre mio padre a causa del lavoro era presente solo nei weekend. Quando i genitori divorziano, non necessariamente si è destinati a perderli ma è un’assenza che colpisce sempre. Non è quello di cui parla questa storia, però la perdita della madre motiva ciò che accade nella pellicola. La sua assenza intensifica gli sforzi educativi del padre e lo costringe a viaggiare, rendendo il tutto più intenso.

Nel film i personaggi celebrano il “Noam Chomsky Day”. Forse non esistono davvero le casualità, dato che uno dei suoi album è dedicato al noto linguista americano.

Beh, ho letto parecchi libri di Chomsky. Non sono d’accordo con tutto ciò che ha scritto, però condivido molte delle sue idee; parecchi dei libri che si vedono nel film, infatti, provengono dalla libreria di casa mia. Sono semplicemente una persona che pensa, ascolta, che magari disprezza anche, ma cerca sempre di spiegare la sua posizione.

A breve uscirà il suo nuovo album. Che rapporto ha con la musica?

Non ho mai preteso di essere un bravo musicista, ma ho sempre apprezzato la musica come mezzo di comunicazione non verbale. Ho un legame molto stretto col piano e con il suo suono. Ultimamente ho fatto persino qualche miglioramento (sorride, ndr). Continuo a progredire lentamente, tuttavia imparo sempre qualcosa. Anche quando suono solo per cinque minuti. Lo so che magari poi dimenticherò le melodie, ma quello per me rimane un momento unico. È il viaggio in una foresta in cui non sono mai stato e che non vedrò mai più. Amo la purezza di tutto ciò.

Le canzoni hanno spesso un ruolo catartico nelle nostre vite. È così anche nel film, penso alla scena in cui la famiglia canta “Sweet Child O’ Mine”.

Una delle scelte migliori che abbiamo fatto, per quel che riguarda la preparazione al film, è stata quella d’improvvisare musica tutti insieme, ogni giorno per un paio di settimane. Ciascuno di noi suonava uno strumento diverso, così eravamo costretti ad ascoltarci e questo è stato utile per cancellare la paura di fare errori sul set. È stato un bel modo per entrare in confidenza l’uno con l’altro. Creare una dinamica simile a quella di una band ci ha aiutato a diventare una vera famiglia.

Nei suoi dischi ha collaborato più volte con un personaggio misterioso come il chitarrista Buckethead, che per un periodo ha militato proprio nei Guns ‘N Roses. 

Buckethead è una persona molto schiva, che parla davvero pochissimo. Ultimamente è diventato ancora più solitario e riservato. Non dice quasi nulla quando ci vediamo, solo qualche commento su uno di quei film strani che ama guardare. Di solito gli chiedo “comincio io o cominci tu?” e poi semplicemente iniziamo a suonare, senza aver pianificato nulla. Negli album che abbiamo realizzato insieme, la musica è sempre nata sul momento. È un dialogo sempre sorprendente, in cui nessuno dei due dice all’altro che cosa deve fare. Credo sia per questa ragione che si sente a suo agio con me. È una conversazione senza parole.

È stato sposato con Exene Cervenka, la cantante degli X, famosa punk band californiana. Le piaceva quella scena musicale?

Allora non ne sapevo molto, ma vivendo accanto a lei ho imparato ad amare il punk. Mio figlio è cresciuto in quel mondo e ha imparato un sacco di cose che gli sono servite in seguito. Ora, per dire, sta lavorando a un documentario sulle Skating Polly. Exene ha prodotto il loro secondo album. Ma se si vuole conoscere meglio quella scena consiglio di leggere due ottimi libri che catturano bene l’essenza di quei giorni: Under the Big Black Sun. A personal History of LA Punk di John Doe e My Damage: The Story of a Punk Rock Survivor scritto da Keith Morris, il cantante dei Circle Jerks.

Sul set di Lupo Solitario ha conosciuto Dennis Hopper, di cui poi è diventato grande amico.

Non l’avevo mai incontrato prima di quella volta, ma sul set ho sentito immediatamente un forte legame con lui. Abbiamo girato anche un altro film insieme, Limite estremo, dove Dennis aveva un ruolo molto divertente. Era molto diverso da me, ma quello che ci legava era il senso dell’umorismo, l’amore per l’arte moderna e la sua filosofia di vita: “Si può fare qualunque cosa. Perché no? Basta provarci.” È stata una delle poche vere amicizie che ho avuto con qualcuno del mondo del cinema.

Dalla sua passione per l’arte è nato anche il desiderio di cimentarsi con l’editoria. Nel 2002 ha fondato una casa editrice, la Perceval Press.

È nata quasi per gioco. Una volta ho consigliato un libro d’arte che avevo molto apprezzato a un amico e ho pensato che sarebbe stato bello farlo su larga scala. È un modo per condividere ciò che mi piace con tante altre persone. Magari opere che altrimenti non sarebbero pubblicate. Come Hijos de la selva, un volume che sono orgoglioso di aver pubblicato. È un libro sull’etnografo tedesco Max Schmidt: un pioniere, prototipo di antieroe, che agli inizi del ‘900 ha documentato fotograficamente la vita degli abitanti della regione brasiliana del Mato Grosso e del Gran Chaco del Paraguay mantenendo sempre una posizione di uguaglianza nei confronti degli indigeni. Questo libro è una splendida fusione di arte e scienza, ma vorrei lo vedesse con i suoi occhi (mi porge una penna, ndr). Può darmi il suo indirizzo?

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