Abbiamo visto “ Mangia, prega, ama “ regia di Ryan Murphy.
Il rapporto tra letteratura e cinema è sempre stato controverso e difficile ma negli ultimi ‘ incontri ‘ sembra che una difficoltà intrinseca sia diventata quasi insuperabile. Basti citare “ La regina dei castelli di carta “ o “ Il Riccio “ fino all’ultimo “ La solitudine dei numeri primi “. Nelle sale è arrivato la peggiore delle messe in scena, “ Mangia, prega, ama “ tratto dal best seller autobiografico della giornalista Elizabeth Gilbert. Il romanzo pieno di dettagli minuziosi e personali racconta di una giornalista che ha una vita apparentemente perfetta, un matrimonio invidiabile, un lavoro bello e creativo, una casa splendida a New York; d’un tratto, in una notte autunnale, si ritrova in lacrime sul pavimento del bagno: non vuole più niente di tutto quello che ha e si mette a pregare. Divorzia, inizia una storia d’amore destinata a finire anche perché lei è decisa a partire per un anno alla scoperta di sé. Prima in Italia, poi in India e infine a Bali dove trova l’equilibrio definitivo e l’amore. La storia contiene quello che noi europei riteniamo “ la leggerezza “ degli statunitensi nel bene e nel male; il film prende solo questa “ leggerezza “ e la traduce in una serie di imbarazzanti luoghi comuni, al limite della stupidità umana, e anche quella vena d’ironia ‘ sottile ‘ che contiene il romanzo si tramuta in irritante banalità che rende i personaggi non critici e autoironici bensì dei tontoloni irritanti fino al punto che ci è quasi venuta voglia di alzarci e andar via dalla sala, cosa fatta da una parte del pubblico alla spicciolata e senza turbamenti ideologici.
E’ difficilmente comprensibile come sia stato possibile una messa in scena del genere avendo, oltretutto, attori come la Roberts e Bardem attenti nello scegliere i ruoli e i film. Le tematiche nel libro appaiono serie, anche complesse, ma la sceneggiatura riprende i temi in modo superficiale, approssimativo, melassati di sorrisi, cibo e pruriti borghesi. La solitudine della protagonista ma anche di altri personaggi sono accennati in modo superficiale e non durano più di una virgola, la sofferenza è riempita di sorrisi e persone serene. Il primo blocco, quello newyorkese, è sul genere Sex and City, tutti belli, colti e soddisfatti con il sottofondo di case e di una città da cartolina; la protagonista, una trentenne rampante ma con saggezza è inquieta come può esserlo una che ha tutto. Il secondo blocco, il più irritante e sgualcito culturalmente, è in Italia. Dove nelle case del centro storico non c’è l’acqua calda, i soffitti possono crollare, le padrone di casa parlano siciliano, sono impiccione e si meravigliano che una donna non sia sposata, gli uomini sono rimorchioni e sanno vivere e le coppie pomiciano per strada davanti a tutti. Un blocco inutilmente lungo che non è accettabile nemmeno come spot turistico, privo di qualsiasi pathos e di ripercussioni narrative. Il terzo blocco si svolge in India dove, dopo una breve cartolina iniziale, il Paese rimane da sfondo insignificante, la guru da cui Liz è andata se ne sta furbescamente a New York e un americano che diventa suo amico ( il bravo attore Richard Jenkins ) le confessa dopo un bel po’ che lui è nell’ashram perché… e il monologo è costruito in modo da far credere a una tragedia terribile, che poi si rivela scampata: un trucchetto drammaturgico che evidenzia la falsità di tutta la storia. Il quarto e ultimo blocco è ambientato a Bali, scorci da cartolina, un Bardem brasiliano che piange spesso perché è molto sensibile e che come lavoro fa delle compilation di musica brasiliana e c’è uno sciamano vecchio e sdentato meno credibile di un cartomante televisivo ma che da il là alla redenzione definitiva di Liz.

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