Abbiamo visto “ Miele “ regia di Valeria Golino.

Cosa spinge una giovane donna trentenne a vivere nella menzogna ?  Ad avere due vite completamente diverse ?  A mentire ad un padre affettuoso ma chiuso in sé, ad avere una relazione con un uomo sposato senza provare un reale affetto, a dire agli altri che lavora come assistente all’Università di Padova ma in realtà non si è mai laureata e viaggia in continuazione per un lavoro che lavoro non è, ma è quasi una missione: un angelo della morte.  E in questa eteronimia totale ha bisogno di certezze morali e cerca nella ‘ purificazione ‘ del mare un suo equilibrio.  Beh, di tutto questo c’è traccia ma non drammaturgia né profondità psicologica. I protagonisti sono fuori fuoco, a volte del tutto inutili ( come l’episodio con i due fratelli Filippo e Clelia: un Roberto De Francesco e una Iaia Forte sprecati nel nulla ) dati per dati senza alcuna profondità e di tutti vorremmo sapere qualcosa in più; un po’ come se qualcuno ci facesse assaggiare ad occhi chiusi pezzettini di cibo senza farceli né vedere né mangiare veramente.  Forse perché un tempo i bravi sceneggiatori italiani, e non, partivano da letture come Cervantes o Dostoevskij e forse oggi chi scrive Cinema legge Baricco e Fabio Volo.  Certo oggi non  si deve spiegare tutto e motivare qualsiasi passaggio narrativo o psicologico ma dare tutto per scontato senza guardarsi dentro è probabilmente un po’ troppo.  Peccato, perché l’argomento è talmente serio, importante e necessario in questa italietta conformista, cloroformizzata e ipocrita che riuscire ad avere una possibilità per raccontare il dolore, il disagio e la morte decente meritava altri autori e maggiore attenzione.  Sprecare è un po’ distruggere: e il fatto che la solita canea intelletual destrorsa non si sia villanamente ribellata ad un tema così ‘ facile ‘ per loro dà il desolante risultato di un’operazione fallita.

Non vorremmo essere del tutto banali ma la protagonista Jasmine Trinca – potenzialmente brava – senza un regista che sa far recitare i suoi attori rischia di finire in quello stereotipo degli attori morettiani sfigati e tristissimi; anche il bravo Carlo Cecchi sembra recitare su un  palcoscenico e rischia in alcuni momenti di sembrare un “ trombone teatrale “.  Degli altri resta quasi niente come Rocco o Stefano.  Da segnalare in negativo la fotografia che non ‘ sfonda ‘ la superficie, che quando deve essere drammatica è cronachistica, quando deve ‘ raccontare  ‘ qualcosa la filma semplicemente.

Tratto liberamente dal romanzo “ A nome tuo “  di Mauro Covavich, la storia racconta di eutanasia e morte assistita; seguiamo Irene, una donna trentenne, – che dovrebbe essere dura e carismatica –  portare avanti questa missione tra l’Italia e il Messico, dove va a procurarsi i farmaci necessari.   Si fa chiamare Miele, ha sempre la musica a palla nelle orecchie, parla poco, viaggia molto ed ha rapporti umani con pochissime persone, rapporti non proprio profondi, e quando si sente affranta si estenua nuotando nelle viscere del mare all’alba: contrappone all’inerzia finale dei corpi dei malati l’iperattività di una donna che vuole sentirsi viva.  In cambio di una cospicua somma porta a domicilio il farmaco che non fa soffrire e che non lascia tracce nell’organismo, spiega come deve essere somministrato al parente più prossimo, gli spiega che non deve toccare il bicchiere anche per non lasciare le impronte, resta fino al termine dell’atto e va via con espressione molto sofferta ( forse in quelle persone vede sua madre che è morta dieci anni prima probabilmente con sofferenza e senza poter scegliere ? ).  In questo tran tran, che lei compie da oltre due anni in tutta Italia, un giorno si reca dall’ingegner Grimaldi, un uomo colto sulla settantina che fuma in continuazione; questa volta non segue la solita prassi,  consegna il barbiturico dando per scontato che l’uomo sia malato.  Quando scoprirà invece che è sano, tornerà a casa dell’uomo, pretenderà invano la restituzione del farmaco e gli restituirà rabbiosa il denaro.   Ma c’è un qualcosa di non definito – oltre al fatto che l’anziano ingegnere è sano e vuole morire – ad attrarre la giovane donna verso l’uomo.  Ma non è, per fortuna, attrazione fisica; non sono nemmeno le sue battute da uomo vissuto e intellettuale, non è nemmeno la ricerca di un padre o di qualcuno che la consigli, e non è nemmeno la fascinazione per l’opposto.  Si instaura tra i due una relazione saltuaria umana che forse Irene cerca di istaurare in alternativa a tutte le altre relazioni che sono di morte o di finzione ( e quindi mortuarie ): per una volta vuole essere l’angelo della vita e non della morte ?  Ma come succede spesso nel cinema italiano il finale è quasi prevedibile.

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