Prima di morire, suicida, nella sua casa in California, nel 2008, David Foster Wallace ha sistemato una pila di fogli, quaderni rilegati, raccoglitori ad anelli e alcuni floppy disk sul tavolo del garage. Secondo ciò che si sa, la raccolta di note, schemi, frammenti di romanzo, personaggi abbozzati e capitoli appena raffinati, comprende centinaia di migliaia di parole, la maggior parte delle quali ruotano intorno a un gruppo di contabili impegnati, intorno al 1985, in un ufficio dell’Internal Revenue Service a Peoria, Illinois. Secondo David Hering, docente alla University of Liverpool, che ha avuto accesso agli archivi di Wallace custoditi a Austin, il materiale risale al periodo immediatamente successivo alla pubblicazione di Infinite Jest (1996). Wallace si è riferito spesso a un progetto narrativo, che temeva ingestibile, come alla “roba grossa”. Michael Pietsch, che ha assemblato alcune di quelle pagine in The Pale King (2011), ha scritto che Wallace parlava di “comprimere su un foglio una tempesta di vento”. In una e-mail all’amico Jonathan Franzen, Wallace ha spiegato che

“L’intera faccenda è un tornado che non resisterà abbastanza a lungo per farmi capire che cosa è utile e cosa non lo è”.

Come sempre, la scelta delle parole di Wallace non è casuale. La capacità di capire cosa è utile e cosa non lo è, non riguarda soltanto la sintesi necessaria per completare il romanzo; pertiene alla virtù dell’intelletto che l’autore sperava di coltivare nei suoi lettori. La forma retorica più comune in The Pale King è la commozione risolta nella quiete. “Ero come un pezzo di carta preda del vento, e pensavo: ‘Ora soffierà in questo modo, ora in quest’altro. La mia risposta essenziale a tutto era: Come vuoi, non importa, in qualsiasi modo’”. È la prima pagina del monologo del revisore dei conti Chris Fogle che, nella parte più corposa del testo, spiega a un intervistatore fuori scena il percorso che lo ha portato al “Servizio”. Quello di Fogle è il racconto di una conversione che inizia con un’adolescenza durante la quale il protagonista “ha avuto difficoltà a dare attenzione”, e che si conclude, in seguito a una sorta di esperienza religiosa, nel corso per contabili presso la DePaul University, Chicago.

Il monologo di Fogle è ora pubblicato come racconto indipendente, con il titolo Something to Do with Paying Attention (McNally Editions). Nell’introduzione al libro, Sarah McNally definisce queste pagine “non soltanto una storia compiuta, ma il più fulgido esempio dello stile maturo di Wallace, in cui calma, equilibro, esattezza sostituiscono i fuochi retorici artificiali di Infinite Jest e dei lavori precedenti”. Per gran parte della sua vita narrativa, Wallace è stato lo scrittore noto per le note interminabili, le chiose riflessive, le frasi piene di incisi involuti, nel tentativo di raffigurare le tortuosità contraddittorie della mente statunitense: un cervello grave di gergo burocratico, slogan, pseudo-concetti terapeutici, avvolti nello spago dell’autocoscienza postmoderna. Non sempre ha scritto così. Il monologo di Fogle è il tentativo più ardito compiuto da Wallace di adottare la schietta franchezza della narrativa che amava, quella piena “di passione morale, spassionatamente morale”, propria dei suoi amati russi, Dostoevskij in particolare.

McNally poco dice, piuttosto, su come il racconto risponda alla domanda più urgente di Wallace, uno scrittore che ha sempre connesso le scelte stilistiche a precise opzioni filosofico-morali. A cosa serve questa nuova franchezza morale? Imparare a “capire cosa è utile e cosa non lo è” è, certamente, una questione di autodisciplina, l’inclinazione di un carattere. Gli ultimi lavori di Wallace rivelano una nuova consapevolezza: capire cosa separa l’utile dall’inutile richiede un giudizio etico, vuol dire capire cosa è degno della nostra dedita attenzione. La contabilità pubblica, come insistono alcuni personaggi, può essere davvero una vocazione morale? Cosa vuol dire essere “utile”, sia come impiegato del governo federale che come artista, nell’America plasmata da Ronald Reagan? L’ultimo lavoro di Wallace solleva tali questioni – senza risolverle.

Il grande soggetto dei libri di Wallace è la palude di egoismo, auto-realizzazione, narcisismo intellettualizzato in cui la coorte degli americani istruiti e privilegiati era destinata a sprofondare – a meno di non scoprire qualcosa da amare più di se stessi. La differenza tra Wallace e i suoi contemporanei – che a volte gli ha garantito accuse di ipocrisia e autoinganno o di livoroso sentimentalismo – è l’impegno a non limitarsi a catalogare i sintomi e le trappole dell’alienazione moderna. Ciò non significa che l’autore si sia liberato da quelle trappole; vuol dire, al contrario – come si evince dalla conversione di Fogle –, che lo scrittore sperava di poter liberare i suoi lettori.

Something to Do with Paying Attention, come qualsiasi narrazione che preveda una conversione, comincia con una perdizione, una per-versione. Fogle, gonfio di vergogna, racconta di essere stato un bambino inerte negli anni Sessanta, alla deriva tra scuola e lavoro, cresciuto in un sobborgo di Chicago, dove lui e i suoi amici fumavano erba, parlavano del significato riposto delle canzoni dei Pink Floyd, si laceravano, tossicomani, in uno “strano tipo di disperazione narcisistica”. Le cose cominciano a cambiare dopo una sequenza, che soltanto Wallace – l’ultimo grande romanziere americano in grado di interpretare la tivù popolare – avrebbe potuto scrivere. Fogle, guardando una soap nella camera del convitto della DePaul, nel 1978, è colpito da uno slogan: “Stai fissando mentre il mondo gira”. La frase sconvolge Fogle, che pensa, dalla sua nebulosa concettuale,

“Potrei essere davvero un autentico nichilista. Senza alcuna posa. Uno che è andato alla deriva perché niente ha senso e nessuna scelta è migliore di un’altra”.

Sotto la posa teatrale del tossico, si nasconde la verità cangiante del reale.

Wallace era un romanziere con un insolito sostrato filosofico: credeva che la vita culturale fosse orientata da un insieme di idee e di immagini dominanti, più antiche e più radicate di una tendenza specifica. La terra desolata in cui si muovono i suoi tossici non è semplicemente attribuibile all’influenza dei media popolari americani degli anni Settanta; emerge dal sostrato degli ideali secolari e moderni. L’evocazione della parola “nichilismo” serve a Fogle per connettersi allo scetticismo stigmatizzato dai filosofi moderni, da Kant a Simone de Beauvoir, tesi ad assicurare basi razionali alla morale, indipendenti da Dio, dato per morto. Wallace credeva che questa impresa, del tutto astratta, fosse alla base della frustrazione di Fogle, incapace di sopportare i corsi accademici umanistici: “Il punto centrale delle lezioni era che nulla significava nulla, che tutto era astrazione e dunque interpretabile all’infinito”.

Scegliendo di seguire le orme del padre e di dedicarsi al servizio pubblico, Fogle cerca di rompere lo schema e di avviarsi verso una vita che crede “umana”. Il problema è che il servizio pubblico, durante l’arco generazionale che separa Fogle dal padre, è diventato molto poco “umano”. Il padre di Fogle fa parte della Silent Generation partorita dalla grande depressione: uomini che condividevano valori come parsimonia, patriottismo, rispetto per le autorità. Fogle, al contrario, appartiene a una generazione che diventa maggiorenne durante la guerra in Vietnam e il Watergate, eventi che hanno creato una breccia nella fiducia dei cittadini verso i loro governanti (Fogle ne parla come di un “divario della credibilità”).

Nel punto focale del monologo, Fogle racconta del “Servizio” come del modello che gli ha permesso di adempiere al proprio interesse personale per uno scopo più alto. È l’insegnamento gesuita secondo cui anche la contabilità pubblica può assurgere a nobile vocazione, capace di inculcare virtù come il dovere, la responsabilità, il talento nel compiere lavori ripetitivi per il bene degli altri, senza attesa di applausi o di gratitudine, in contrasto al nichilismo dominante dell’epoca. Non è un caso che Wallace collochi gli eventi al culmine della rivoluzione fiscale operata da Reagan, tesa ad avvelenare ancora di più le istituzioni pubbliche americane. La vicenda, dunque, racconta la necessità di uno slancio morale, sincero, ma anche l’impossibilità di trovare un impiego degno di quell’impegno.

Wallace non avrebbe mai immaginato che il suo ultimo romanzo, scritto nel pieno del disinvestimento neoliberal e di un disincanto da fine della storia, sarebbe apparso all’inizio di un decennio che ha segnato il ritorno a una specie di etica della consapevolezza e della condanna. Solo tra gli artisti della sua generazione a pretendere una “nuova sincerità” nella cultura, Wallace riteneva che la vita civile e politica americana avrebbero potuto essere il ricettacolo adatto ad accogliere tale sincerità. Negli anni che seguirono la pubblicazione di The Pale King, l’idea che gli artisti americani assolvano il loro ruolo etico dandosi alla politica è diventata pressoché inevitabile. Troppo spesso questo ruolo si è tradotto in forme magniloquenti e urlate ben diverse dalle intenzioni di Fogle, che parlava di gesti intrapresi “senza pubblico”, in austero anonimato. Tuttavia, l’influenza di Wallace sulla letteratura recente non riguarda tanto le innovazioni stilistiche ma l’insistenza sul fatto che letteratura dovrebbe mirare a uno scopo morale superiore a se stessa. Sappiamo come è finita.

Così, potremmo leggere oggi la storia di Fogle come un’allegoria del tentativo di Wallace di scrive narrativa morale in una società amorale, incapace di esprimere giudizi condivisi su ciò che è utile e ciò che non lo è. Wallace ha cercato di costruire la soffitta di una casa le cui fondamenta sono crollate. Come sia riuscito a rimanere lassù tanto a lungo è una specie di oscuro miracolo.

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