Homo Consumens, è il titolo di un libro di Zygmunt Bauman e al tempo stesso è la definizione di un attore insostituibile per la nostra stessa idea di modernità. Il sottotitolo del libro, lo sciame inquieto dei consumatori, svela chi siano questi attori.

Siamo fondamentalmente tutti noi, sradicati collettivamente da ogni forma di autoconsumo negli anni del boom economico, gli anni 60, anni in cui abbiamo perso il contatto diretto con i cicli della vita e dell’agricoltura.

A ben vedere il fatto di essere diventati soprattutto consumatori, almeno in Europa, è stato un marchio esistenziale per quella e per tutte le generazioni a venire, proprio come l’“invenzione” dei giovani, della musica rock, l’avvento del supermercato e quello dei jeans, la necessità pochi anni dopo di un’“educazione alimentare”…

Sciame inquieto quello dei consumatori, non a caso, perché espressione dei comportamenti e dei consumi fluttuanti attraverso i quali i gruppi sociali fondano un proprio riconoscimento ma sempre a termine, sempre labile…

È in quel riconoscimento che gli individui cercano le tendenze che potranno essere vincenti nell’assicurare continuità al loro senso di appartenenza. Il succedersi continuo di mode che viviamo e abbiamo vissuto non sono il segno di questa “danza” entro la quale tutti siamo avvolti?

Una danza che avviene dentro un enorme sciame inquieto…

 

 

Lasciando Bauman, restano intorno a noi le tribù – entità sociali che dalla rivoluzione neolitica lentamente scompaiono dall’orizzonte dell’umanità – e che sono ricomparse sotto altre vesti. È come se i geni del paleolitico reclamassero la loro presenza e si mostrassero in altre forme. Non solo quelle note della tendenza ad ingrassare (ma nella lunga stagione paleolitica quei geni erano favoriti perché più efficaci rispetto alle carenze alimentari) ma anche quelle, come definirle… quelle del riconoscimento e dell’appartenenza senza le quali un gruppo non è più tale.

Se nelle enormi società figlie dell’agricoltura, delle rivoluzioni industriali e della modernità le tribù reali si sono estinte… in queste nostre stesse società, riportate alla luce dai geni profondi, sono riemerse le tribù artificiali fatte di mode, tendenze, consumi…

 

Nell’abbigliamento o nel costume le mode sono evidenti in una rotazione pressoché continua, ma negli ultimi decenni anche l’alimentazione ne è stata coinvolta: così per i comportamenti e le teorie, le convinzioni, gli alimenti miracolosi di una sola stagione.

Così ad esempio, cosa sono state se non “anche” mode gli alimenti a km 0, il pane ai cinque cereali, la “scoperta” della soia, l’alimentazione macrobiotica, gli integratori in barrette, la nouvelle cuisine, l’integrale e il finto integrale, la riscoperta del mirtillo, l’infatuazione per la curcuma, la scelta vegana, il sushi e molto altro ancora. Tutti consumi basati su nuove certezze oppure suggestioni scientifiche, quasi tutte fondate su una maggiore aspirazione alla salute e al benessere personale.

Ed è proprio questo il punto… qualunque moda sembra partire dall’idea di fondo di un vantaggio personale oltre che di riconoscimento collettivo.

 

Eppure… eppure negli ultimi anni sembra di intravedere qualcos’altro, sembra che queste tendenze possano non essere tutte uguali… sembra che oltre l’orizzonte degli interessi personali, oltre al naturale egoismo dei geni che ci porta verso consumi rivolti al benessere personale (che sia sempre quello dell’immortalità il sogno inconfessato…?) si faccia largo la necessità di un benessere condiviso, in qualche modo collettivo. Se così fosse, sarebbe qualcosa di più di una rivoluzione culturale…

Gli alimenti bio, quelli a km 0, le scelte vegane o vegetariane, gli alimenti equi e solidali, i prodotti del territorio, gli alimenti e la cucina della tradizione solo apparentemente sembrano infatti elementi di un quadro eterogeneo, perché in realtà accomunati dal fatto di essere scelte che vanno oltre ogni benessere personale.

 

In ognuna di queste scelte – anche in quelle che non condividiamo – sembra possibile intravedere una trama coerente che le collega: è così per l’attenzione al tempo e ai luoghi, quella verso l’ambiente e poi il rispetto della natura, il rispetto del lavoro dell’uomo e di tutta l’umanità che è e che è stata…

Un insieme di attenzioni e di preferenze che può essere chiamato anche consapevolezza, etica, senso di responsabilità, condivisione… comunque qualcosa che sembra andare oltre le mode passeggere delle tribù artificiali ma in cui ci si riconosce (ancora inconsapevolmente credo) figli di una stessa terra, di una stessa madre, di uno stesso destino…

 

C’è un momento in cui compiamo la scelta definitiva verso gli alimenti, l’ultimo attimo volontario dopo il quale tutto avverrà al di fuori della nostra volontà e il cibo diventerà parte di noi.

È insolito pensarci in questi termini ma inghiottire, deglutire rende definitive le scelte che abbiamo fatto, definitivi i nostri gusti, le idee, i convincimenti e le teorie che ci sorreggono. È in definitiva in quel momento che certifichiamo che quel piatto, quell’alimento, quella dieta è buona. Ed è la fine di un percorso in cui prima c’è stata tutta la conoscenza e la cultura di cui noi e chi prima di noi è stato capace…

 

Ma in definitiva scegliere il cibo non è sempre cultura…?

E così allora deve essere anche per le attenzioni e le preferenze che oggi sembrano affacciarsi all’orizzonte, già…

Etica, responsabilità, condivisione dicevamo… ma tutto potrebbe forse essere accomunato dall’affacciarsi di un sentimento, la consapevolezza che il benessere non può essere solo personale e che deve appunto essere condiviso… un sentimento che rende il nostro cibo non solo buono ma “buono e giusto”, credo un cibo di cui si riscopre la sua dimenticata normale sacralità… una sorta di “cibo sacro quotidiano”, così come in fondo è sempre stato, almeno prima di ogni boom economico, prima che il progresso fosse misurato solo in Pil e in consumi, prima che ci dicessero di essere consumatori.

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