Il peggior modo di omaggiare Pier Paolo Pasolini, a un secolo dalla nascita, è idolatrarlo, generando un credo indistinto, inferiore: farne un pupazzo, cioè, un pupo, il bambolotto chino a ogni esegesi. L’altro è stritolarlo col bisturi, distinguendo, con formule spesso dissennate, l’uomo dal poeta, l’ideologo dall’artista, il provocatore dal cineasta, l’untore della buona società dal rampante sociale. A seconda del modo in cui lo si uccide, Pasolini è fascista o comunista, ha fatto dei bei film ma scritto dei pessimi romanzi, è un versificatore modesto, un elzevirista micidiale. C’è chi ritiene gli Scritti corsari il suo miglior libro e chi considera Petrolio, magma feroce e informe, il massimo romanzo del secondo dopoguerra. Implacabile, famelico, Pasolini, piuttosto, ha scritto di tutto per minare alla base ogni giudizio critico, per allattare discepoli – scientificamente sputtanati e contraddetti – più che tentare lettori; lavorando, senza assolversi, per fomentare fraintesi. L’opera di Pasolini è costellata di trappole, evade per eversione e perversione dal genere; resta il fatto, per lo più, che Pasolini fu poeta: del poeta aveva l’estro, l’urgenza, la dissennatezza, la ferocia verbosa. Tuttavia – per tutto ciò che è stato PPP – Pasolini non accredita critici né amici: pretende lottatori, gente che non si confronti con la sua opera, confortandola di aggettivi e fioriera di studi, ma la sappia dilapidare, lapidare.

Per paradosso, per dire, la figura di Pasolini è avvicinata a quella di Guido Ceronetti. In un articolo del 2018, rievocando Quella sera ai Castelli, Valerio Magrelli, ad esempio, giudica Ceronetti “un Pasolini del tutto privo di coinvolgimento politico, ma con lo stesso senso di aspra rivendicazione nei confronti di una sacralità avvertita come irrimediabilmente perduta”. Anche Ernesto Ferrero avanza una analogia simile, celebrando su “La Stampa” Guido Ceronetti, l’ultimo bardo gnostico, che, scrive, “come Pasolini cerca il divino nella fisicità, nel corpo offeso degli uomini”. Pur in modo sfumato, su “La Verità”, Marcello Veneziani definisce Ceronetti “antimoderno come Pasolini”. Pare una vendetta postuma, il vizio dettato dal demone dell’analogia. Al di là di generiche etichette e di vaghe prossimità cronologiche – Ceronetti era più giovane di PPP di cinque anni – non possiamo pensare a personalità più diverse, perfino opposte, nel corpo come nel corpus, uno il negativo dell’altro. L’eresiarca Pasolini era dotato di una prepotenza plateale, aveva un fisico olimpico e un tenebroso bisogno di pubblico, non fosse che per essere massacrato; lo gnostico Ceronetti possedeva un narcisismo lunare, malinconico, libresco: la fama gli era utile per fuggirla, il trono per tradurlo in arlecchinata. Pasolini ha necessità del cinema, Ceronetti fonda l’esoterico Teatro dei Sensibili; Pasolini sviscera i tragici greci, Ceronetti traduce i latini, Catullo, Marziale, Giovenale, Orazio; Pasolini desidera essere e toccare, Ceronetti vuole sparire e ferire, da qui la morte plateale del primo, la vecchiaia dell’altro; Pasolini esplora il sacro nel Vangelo secondo Matteo, Ceronetti s’incunea nel gergo ebraico, traducendo i Salmi, Giobbe, Isaia, il Cantico, Qohèlet. Ecco: a Pasolini le traduzioni bibliche di Ceronetti – altro che medesima ricerca tra i labirinti della sacralità – non dicevano niente. In Descrizioni di descrizioni è raccolto un articolo in cui PPP scrive, scrivendo di Gottfried Benn, della “traduzione del Libro di Giobbe, con l’annesso saggio (incredibile! pubblicato da Adelphi)”, giudicando quest’ultimo “un ‘falso’ completo, e per di più, malgrado l’aria di chi vuol essere a tutti i costi spiritoso, assolutamente privo di spirito”, catalogando l’improvvido Ceronetti tra i “noiosi professori” che “si son messi a fare del teppismo dandystico, della frivolezza reazionaria: motteggiando l’unica cosa che essi conoscano, il proprio linguaggio accademico”. Era il 1973.

Erano entrambi bassi: Ceronetti, dotato dell’orecchio del linguaggio, era un poeta, in proprio, infelice. Per lo più, detestava Pasolini. Nel 2014 lo dice chiaramente, in un’intervista rilasciata a Radio Radicale, disintegrando ogni tentativo di equivalenza, di equiparazione tra reazionari alla stupidità imperante, imperiale: “Pasolini lo detestavo, ogni tanto vengo paragonato a lui… per le opinioni politiche, corsare, che paradosso. Era proprio raccapricciante, con un po’ di partito comunista e un po’ di cattolicesimo… io sentivo proprio il guasto in Pasolini, avevo un ribrezzo fisico verso di lui, poi la voce… Una Callas che si va a innamorare di Pasolini, ma come si fa?”. A Sergio Quinzio, di sfuggita, è il 14 dicembre del 1974, riferisce della stroncatura combinatagli da PPP: “Hai avuto replica da Pasolini? Ma lui è soprattutto un confusionario, ha la forma mentis del limitato. Si cruccia, ma non credere troppo ai suoi tormenti morali: gli basta un’ora di letto con uno dei suoi mignoni della mala per dimenticare tutto, proprio tutto. Ho osservato questo: nessun omosessuale è infelice. Chi ama le donne invece resta aperto a tutte le infelicità”.

In un elzeviro pubblicato su “l’Espresso” il 19 novembre del 1978 – Quale dei suoi articoli l’ha ucciso? – chiarisce al pubblico il suo pensiero: “Pasolini non mi piaceva. Come profeta civile lo trovavo senza nerbo, volenteroso ma sempre confuso. Dagli scritti politici di Nicola Chiaromonte si ricava un vero insegnamento; Pasolini appare sempre bisognoso di una correzione di tiro. Voleva processare tutti i democristiani – non aveva torto – però giurava sull’immacolatezza del partito comunista: sono idee queste? Per lui i vecchi antifascisti erano peggiori dei fascisti veri: confondeva la mediocrità con la mostruosità. Spada, luce, mirino, tossico, al suo stile mancavano; privo di genio satirico, di ironico specillo, era un quaresimalista monotono e povero. Il vecchio brodo cattolico italiano, con dentro il dado Liebig marxista, nel fumo di un’ossessione erotica paralizzante. E troppa sconcezza sparsa nei suoi film intorbidiva la sua indignazione. Si sentiva in lui l’uomo indifeso, non l’uomo puro. Indifeso, lo era realmente. Sentiva la presenza del male, era più lucido via via che la sua brutta sera si avvicinava, e ai suoi ultimi scritti non manca il sortilegio triste di una fortissima premonizione”.

Credo che a Pasolini sarebbe piaciuto questo cammeo: tendeva a essere così. Lo stile di Ceronetti – cupo e cartesiano, lucido e grottesco –, d’altronde, descrive un uomo che amava le rovine, ambiva alla decadenza, agli dèi di cartapesta. In effetti, tanto Pasolini tentava, in forme maldestre, l’Eden, così Ceronetti riferiva i disastri della Caduta, godendone. Amavano entrambi Arthur Rimbaud, scoprendovi, probabilmente, cose contrarie, contrapposte, egualmente scatenate – Rimbaud permette ogni geniale mistificazione –; Ceronetti preferiva Montale, Saba, Dino Campana e Vittorio Sereni, ma anche Patrizia Valduga e Franco Marcoaldi. Spesso, traduceva Antonio Machado:

“In coro con me cantate:
Sapere, nulla sappiamo.
Arcano, il mare da cui veniamo.
Ignoto il mare in cui finiremo…”.

Pasolini aveva aperto Suite friulana con un distico di Machado. Forse quel Pasolini sarebbe piaciuto a Ceronetti – ma è bene onorare gli incontri mancati, l’anello che non si chiude, l’incomprensione. A insospettire, piuttosto, è l’acquiescenza di chi è prostrato alla vulgata dominante; il polemista di professione, suddito dell’opera altrui.

*Questo articolo sarebbe impossibile senza l’aiuto fondamentale di Paolo Masetti, che qui si ringrazia

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