Abbiamo visto On the road regia di Walter Sales.
Il libro più celebre di Jack Kerouac, Sulla Strada, è stato per almeno tre generazioni un libro mito e di riferimento per tutti quei giovani che sono stati definiti a volte “Ribelli”, a volte “Beat”, a volte “Figli dei fiori”. Una costola alternativa a tutto quello che succederà negli anni Sessanta e che servirà a spazzare via il vecchio mondo della Lost Generation letteraria americana e non solo. Quelli che hanno viaggiato in autostop, quelli che andavano per le strade del mondo arrivando ad Amsterdam o in India o in Messico avevano come stimolo e come conferma questo libro scritto nella prima versione in quindici giorni e con uno stile a scatti, sincopato, con improvvise immersioni psicologiche e periodi molto lunghi e irregolari.

Forse il giovane Kerouac voleva assomigliare a Henry Miller, forse amava lo stile di Céline, probabilmente era come Bukowsky ma più esistenziale che ironico. E ascoltava molto jazz da Charlie Parker a Ella Fitzgerald (“Voglio essere considerato un poeta jazz che suona un lungo blues” ha scritto). Come miti aveva Rimbaud e la necessità di perdersi: «Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati», «Dove andiamo?», «Non lo so, ma dobbiamo andare». Forse sia lui che Dean Moriarty – il protagonista della storia – avevano le stesse confusioni personali di Rimbaud.

Sulla strada è un romanzo autobiografico scritto nel 1951 e pubblicato nel 1957, racconta dei viaggi in autostop per gli Stati Uniti e di una fuga in Messico nella quale non fanno altro lui e il suo alter ego Dean Moriarty che sesso in un bordello, droga per le strade di Città del Messico e mambo un po’ dappertutto. Il racconto si svolge nell’arco di due anni e compagni di sbronze e di sesso saranno anche Allen Ginsberg, William Burroughs e vari altri scrittori poi classificati letterariamente come Beat Generation. Il romanzo oggi ha sessant’anni e pur restando per le generazioni dai quaranta in su un romanzo ‘quasi’ di formazione, ha perso il suo contesto emotivo ed esistenziale per la realtà di oggi e potremmo inserirlo provocatoriamente in una specie di romanzo storico a volte un po’ noioso e apparentemente insensato, in cui si salva soltanto la prosa forte e originale. Forse è di questo che soffre il film di Sales, giunto dopo troppi anni (i tentativi di realizzarlo sono stati tanti e tutte le volte la narrativa kerouachiana rendeva quasi impossibile ritrasporlo con fedeltà in una pellicola).

Lo sceneggiatore Jose Rivera (già scrittore per I diari della motocicletta e di Letter to Juliet) e Sales ci hanno provato con le migliori intenzioni e con grande accuratezza (ottime le scenografie, la fotografia e il montaggio) realizzando una trasposizione quasi fedele, ma perdendo l’essenza dell’originale, il significato e l’importanza di un romanzo di questo genere, non facendo comprendere il perché del disagio esistenziale, sorvolando sulle psicologie dei protagonisti e così facendoli apparire (forse esageriamo) soltanto degli egotisti solipsisti, in cui lo scrittore Paradiso partecipa guardando per poter scrivere, in cui Dean, dall’energia famelica, deve sublimare l’attimo e in fondo usa gli altri per le sue fughe, mentre gli altri sono dei tossici e ubriaconi con creatività e cinismo. Un film che non è riuscito a farci emozionare e a farci entrare in empatia con questi piccoli angeli ribelli alla ricerca di un padre – che lo scrittore aveva perso da poco e Dean aveva perso per strada tra una sbronza e un viaggio su un treno merci da clandestini -. Ancora, un altro tema è la ricerca inutile di un senso della vita che per Dean è troppo difficile da accettare – per cui passa il tempo a fare sesso e figli come capita, a drogarsi e a cercare nello sforzo della fuga un calmante esistenziale -. E gli altri sono un po’ vittime della sintesi cinematografica, c’è un Allen Ginsberg che pensa solo a rimorchiare uomini e a scrivere poesie, c’è Borrounghs affettuoso padre con la siringa nel braccio e poi Marylou, Camille, Jane, ragazze che in fondo nella vita amano solo scopare, farsi e desiderano sposarsi per fare una vita più tranquilla.

La storia inizia nel 1948, sono gli anni della caccia alle streghe e del trionfo del reazionarismo del presidente Truman. Sal Paradiso è un giovane aspirante scrittore che vive con la madre vedova a New York ed è in cerca di vita vissuta per un’eventuale ispirazione narrativa. Grazie a Ginsberg e ad un loro amico conosce Dean Moriarty (nella realtà si chiama Neal Cassady – ha raccontato la sua storia nell’autobiografico I Vagabondi, ed è morto nel 1968 dopo essere stato a un matrimonio a San Miguel de Allende in Messico) anche lui giovane ma che ha trascorso una vita tra la strada, con un padre alcolista, e il carcere per furto d’auto. Inizia così l’avventura che li vedrà da soli o in compagnia per circa due anni lungo le strade degli Stati Uniti attraversate in autostop o in automobili pronte a sfasciarsi da un momento all’altro. Un viaggio nell’America del dopoguerra al ritmo di musica jazz, alla continua ricerca di un nuovo stile di vita, spesso incosciente, qualche volta anche folle. Sempre con pochi soldi, sempre con un pasto saltato, sempre presi da una vita al massimo, spesso a rubacchiare per sopravvivere e mettere la benzina nell’auto di turno. Insomma provano a vivere e a capirci qualcosa della vita e delle loro vite, attraverso le droghe, l’amore per la letteratura, il sesso e i rapporti a tre. Ma questo girovagare – che può sembrare all’inizio un modo felice e alternativo a quegli anni bui e asfittici – si trasforma in una frenetica fuga senza fine. E figurine appaiono anche gli amori un po’ nichilisti e parossistici, l’arte di Allen Ginsberg che nel film si chiama Carlo Marx e il modo di vivere di Borrounghs. Ma il racconto è su Dean Moriarty che passa da una ragazza all’altra, da rapporti omosessuali con amici o per soldi, dai locali jazz alle sale da biliardo, dalla voglia di imparare a scrivere all’abbandono di figli e mogli quindicenni appena sposate e naturalmente a piccoli reati contro la legge, in un vortice che sembra una giostra impazzita. Il film termina in modo piuttosto convenzionale con Dean e Sal che si incontrano per strada un’ultima volta ma hanno poco da dirsi, le loro strade si sono diversificate.

Come abbiamo già detto il film, scritto da Jose Rivera, non riesce – se non in qualche passaggio a ritrovare la profonda sofferenza con relative ragioni di questi giovani – mentre il regista Sales usa lo stesso timbro filmico che aveva usato nella storia cheguevariana de I Diari della motocicletta. Ma mentre lì funzionava in questo, il timbro, non funziona. I personaggi appaiono distanti, anche un po’ piatti e banali nonostante siano ribelli senza ideologia e in fondo dei beat: dovrebbero vivere una stagione all’inferno, mostrare la consapevolezza di essere dei maledetti e anche in fondo degli sconfitte ma anche dei colti vagabondi che anticipano gli anni sessanta e invece dopo un po’ appaiono solo come degli irresponsabili, degli sballati con poco cervello e nessuna morale (non si può sposare una ragazza per farsi dare dei soldi e mollarla lungo la strada senza nulla… non si può mettere incinta una quindicenne ormai lontana e poi scherzare su chi dei due è il padre… non si può lasciare malato in una stamberga di Città del Messico un amico perché si ha bisogno di partire… ).

Purtroppo non ci fanno risultare simpatici i protagonisti Sal Paradiso e Dean Moriarty nemmeno gli attori che li interpretano Sam Riley (attore trentenne inglese con alle spalle quattro film) e Garrett Hedlund (già visto in Troy e Quattro fratelli) e non perché non siano professionalmente credibili, bensì perché risultano scialbi e un po’ incolore nei ruoli di giovani dalla grande sofferenza e dalla profonda solitudine.

Post Scriptum: Neal Cassady è stato un mito collettivo per la controcultura americana, basti pensare alle tante canzoni scritte su di lui dai King Crimson ai Grateful Dead fino a Tom Waits. Ed anche Charles Bukowski racconta di Neal Cassady nel suo Taccuino di un vecchio sporcaccione.

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