Ieri c’è stato un incontro nello spazio eventi dell’agenzia stampa Dire con Massimiliano Smeriglio e Carlo Calenda moderato da Concita De Gregorio. Il titolo dell’incontro era Direzione Roma, e l’idea era proprio quella di affrontare le questioni della città in una prospettiva già elettorale; a Roma si vota a giugno 2021 se non ci sono interruzioni alla consiliatura prima.

È un po’ irrituale che un’agenzia stampa sia il luogo d’incontro in cui viene presentata un’autocandidatura di fatto a sindaco di un politico. Ma tralasciamo gli aspetti più marginali, e concentriamoci soprattutto su quello che hanno detto Smeriglio e Calenda, e soprattutto su quello che ha detto Calenda. Entrambi infatti in questo momento sono parlamentari europei, non hanno un ruolo nelle politiche romane (il primo è stato vicepresidente della regione Lazio, il secondo ministro dello sviluppo economico con un’interazione molto lunga e contrastata con il Campidoglio). Smeriglio non ha espresso volontà di intervenire in prima persona nella campagna elettorale romana, Calenda invece ha fatto capire e ormai dichiarato più volte di volersi invece assumere il ruolo di sindaco della capitale.

Qui si può rivedere tutto l’incontro. Di seguito ho riportato le prime nove dichiarazioni di Calenda, per rendere facilmente palese l’arroganza di destra delle sue posizioni politiche oltre che la misconoscenza della politica e dei temi sociali di questa città che è davvero molto più complessa, e soprattutto molto più bella di come la descrive Calenda.

La prima cosa che Calenda dice è che la politica è etimologicamente l’arte del buon governo. Chiaramente non è così, o almeno non è così semplice. La politica nasce come proprio come uno spazio di confronto intorno a ciò che è pubblico e comune. Governare non è solo una tecnica replica Socrate ai sofisti; la politica è soprattutto interrogarsi e ragionare cosa è il bene comune è l’articolata riflessione di Platone (che potremmo definire il primo a definire questo campo di indagine), dalla settima lettera fino alla trattazione della Repubblica.

È chiaro che se riduciamo la politica a mera amministrazione o a management (come poi sintetizza Calenda in passaggi successivi), ci siamo persi un bel pezzo.

La seconda cosa che dice è che Bonaccini in Emilia, che viene preso come modello di campagna elettorale e di vittoria, ha fatto delle scelte erano per alcuni e non per tutti. E che non ha mai ceduto a fare una campagna elettorale contro i fascismi: “Se noi faremo una battaglia contro il fascismo”, dice più chiaramente, “noi perderemo una battaglia contro i fascisti”.

Anche qui Calenda confonde una idea tutta sua di antifascismo di maniera con una militanza antifascista che comprende già oggi invece un coinvolgimento e, anche, una vittoria e un’egemonia contro i nuovi fascisti: scuole popolari, movimenti femministi, presìdi antirazzisti, le libere assemblee di Centocelle o di San Basilio, il lavoro sulla memoria storica di molti municipio (dall’ottavo al terzo) non soltanto sono un baluardo contro derive retrotopiche, rigurgiti fascisti, ma danno il senso di un’orizzonte su come costruire nuove comunità.

Fa due errori insomma: annacqua l’analisi dei nuovi fascismi riducendoli a feticci o caricature, non comprende l’importanza storica per la politica romana dell’antifascismo anche oggi che la cultura antifascista è in crisi. Definisce l’antifascismo una posizione ideologica, prendendo una posizione speculare a quella delle destre.

La terza cosa che Calenda dice è che i Cinquestelle siano da ostracizzare in qualunque idea di coalizione per governare Roma. Anche qui la sua posizione è semplicistica, inefficace forse anche retoricamente. Il governo della giunta Raggi ha avuto risultati molto mediocri, è evidente a tutti, soprattutto rispetto alle aspettative che aveva creato. Ma è vero che quelle aspettative avevano una matrice molto forte che era la cifra genetica con cui il Movimento anche nel 2016 poteva presentarsi: coinvolgimento della cittadinanza, trasparenza dei processi amministrativi, svolta ecologista. Queste istanze vanno preservate, c’è una parte dell’elettorato Cinquestelle e di alcuni amministratori che ancora le rappresenta.

La quarta cosa che dice è che “il decoro urbano non è bigottismo borghese, ma il senso di sicurezza che si dà alle periferie”, riassumendo in una sola frase il classismo, l’ignoranza del tema, e la posizione destrorsa. Non è difficile replicare come la retorica del decoro sia stata un’ideologia utile a escludere e creare diseguaglianze nella città. Il libro Contro il decoro di Tamar Pitch ormai dovrebbe essere metabolizzato nel dibattito pubblico, quello di Wolf Bukowski La buona educazione degli oppressi mostra proprio come questo dispositivo abbia avuto successo nelle città italiane e abbia prodotto dei mostri: gated communities, desertificazione, e lo svuotamento proprio del senso della città come comunità di conflitti. Richard Sennett, Usi del conflitto, già negli anni settanta metteva in guardia contro le retoriche del decoro.

Per inciso, Calenda parla delle periferie con un gergo colonialista, come se si trattasse di un hic sunt leones. Per sua informazione nessuno “in periferia” chiede più decoro, ma servizi e opportunità di sviluppo; nessuno tranne i fascisti dichiarati o mascherati da classismo borghese.

La quinta cosa che dice è l’esaltazione dei retake. Con una frase che mette i brividi, degna di una distopia da Elias Canetti: “Fare i graffiti era rivoluzionario forse a metà del novecento, oggi tenere pulito un muro è rivoluzionario”, si schiera anima e corpo contro i graffiti e le scritte sui muri. “È venuto contro i retake tanto fuoco amico”, lamenta. È chiaro che un aspirante sindaco che nel 2020 esalti i retake e si scagli contro le scritte sui muri appare quanto meno un obsoleto borbottone. Ma se non si vogliono liquidare così gli strali di Calenda, basta storicizzare questo dibattito, almeno agli Stati Uniti degli anni novanta, quando nasce la “tolleranza zero”, la teoria delle finestre rotte e tutto ciò che ha partorito l’ideologia del decoro. I graffiti in quel contesto sono usati come stigma per una società che divide in modo manicheo la città, che esclude minoranze povertà e dissidenza, che penalizza i conflitti. Elogio delle tag di Andrea Cegna è una buona sintesi di questo dibattito che è poi diventato internazionale e la sua traduzione nel contesto italiano.

La sesta cosa che dice è “che decoro urbano e sicurezza sono la stessa cosa”. La criminalizzazione dei graffitari serve a Calenda per ascrivere – come se non fosse già evidente questa ormai ventennale fallimento retorico – la sicurezza al pantheon dei valori di sinistra. “Quello che fa paura agli italiani è un led che non funziona”, dice Calenda “sono i muri sporchi, sono il bighellonamento delle persone in mezzo alla strada”.  Bighellonamento, già.

È abbastanza anomalo che Calenda non si renda conto che queste sono le stesse cose per cui si batte la Raggi, ben espresso nel nuovo regolamento di polizia urbana, spiegato in un fumetto orripilante disegnato da Marione e distribuito dalle scuole, e non sono nemmeno troppo distante da quelle che difendono Fratelli d’Italia o Casapound. In quelle che Calenda chiama periferia l’unica cosa su cui sono d’accordo i fragili movimenti dei cittadini è di non rendere le politiche urbane politiche securitarie. Ma Calenda insiste: “La cura e la sicurezza sono la stessa cosa”.

La settima cosa che dice è che per la questione rifiuti occorrono i termovalorizzatori e stop. “A meno che vuoi fare a palle di neve con l’immondizia per tutto l’anno”. È la stessa posizione di Matteo Salvini.

L’ottava cosa che dice, in barba a qualunque dibattito sulle ragioni dell’ondata internazionale di populismo di destra e sovranismo, è che “i totalitarismi” (sinonimo di fascismi, per Calenda) arrivano dove non c’è il buon governo. Qui la bibliografia che sbugiarda questa fesseria è chiaramente sterminata nella sociologia e nella politologia contemporanea.

La nona cosa che dice Calenda è che l’amministrazione romana è formata da persone corrotte e incompetenti. E che pur partendo dalla presunzione di innocenza, occorre per i reati contro l’amministrazione essere molto duri: “Se si trova qualcuno che ruba, gli si danno vent’anni di carcere e non esce più”, mostrando un’idea di giustizia anche qui molto grillina, da populismo penale, malgrado sé.

La decima cosa che dice è “che Roma sta così perché le amministrazioni hanno fallito, ma soprattutto perché i romani non si curano di Roma”, mostrando un esempio preclaro di quello che possiamo definire populismo dall’alto: la colpevolizzazione del popolo, lo stigma sulla società, che in genere (e anche per Calenda) diventa la premessa per avvalorare un governo dei tecnici, dei manager, degli esperti, del managment. La sintesi perfetta in una sola dichiarazione di quel neoliberismo che negli ultimi trent’anni abbiamo provato a contrastare a Roma.

Qualche mese fa Carlo Calenda ha fatto un mea culpa che sembrava definitivo. “Per trent’anni”, ha detto, “ho ripetuto le cazzate del liberismo”. Sembrava il primo passo avanti per un riconoscimento. È evidente che forse serviranno altri trent’anni per rendersi conto che sta continuando a dirle. Nel frattempo può semplicemente evitare di fare dei danni a Roma.

Spiace, ovviamente, che Massimiliano Smeriglio non se ne sia reso conto e l’abbia legittimato come interlocutore in un campo della sinistra in questo dibattito

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