Sono qui, ventiquattro ore dopo la fine del concerto di Nick Cave a Taranto, a chiedermi se sono capace di farlo. Se sono capace di trattenere un po’ della magia e della grazia del concerto cui ho appena assistito per qualche giorno, per qualche ora ancora.

Ieri dopo il live sono tornato a casa e non ho trovato di meglio da fare che riascoltare vecchi brani di Nick Cave. Brani che non ha suonato sul palco del Medimex, altri più recenti portati dal vivo. Altre due ore di musica, stavolta in cuffia, fino alle 4 di notte.

In queste ore ho letto diversi post di amici che raccontavano l’emozione del live di Cave e dei Bad Seeds. Ho letto di eucarestia, sciamanismo, comunione. È chiaro che sono, siamo tutti orfani di questa esibizione, e allora ognuno cerca come può di soffermarsi ancora un po’ in quella terra di mezzo che sta tra il dopo concerto e il ritorno alla vita di tutti i giorni.

Forse è che per molti, come per me, è stato il primo concerto vero dopo due anni… O forse per molti quello di Taranto è stato molto più che un semplice concerto di Nick Cave e dei Bad Seeds – proprio perché a Taranto, città dolente e bellissima, per quel Medimex che si conferma un festival ideato e realizzato alla perfezione – o forse c’è dell’altro ancora.

Io quest’altro provo a indagarlo, mentre butto giù queste parole, guardando foto di Nick Cave e Warren Ellis, pensando a quanto siano eleganti e insieme scapestrati, a quanto tutto in loro – i capelli, gli abiti di scena, le scarpe – rimandi a una dimensione altra. A quanto ogni loro gesto, sul palco, sia indice di un’appartenenza a un mondo fuori dall’ordinario. Il carisma e la ricerca continua, estenuante, di contatto col pubblico, i calci menati per aria, le camminate sul proscenio, i gesti plateali per dare avvio o conclusione a una canzone…

C’è, ovviamente, molto teatro e molta messinscena nel live di Nick Cave. È per questo che il rito ci è sembrato così unico e vero, fatto apposta per noi, nonostante non sia stato poi così dissimile dalla recente esibizione al Primavera Sound di Barcellona come da centinaia d’altre in giro per il mondo. L’officiante è tanto più autentico quanto finge, e finge di funzione in funzione fino a perfezionare la potenza spirituale di ogni suo gesto, di ogni sillaba cantata in ogni canzone.

A tratti il live di Nick Cave è una messa, un gospel, un lungo sermone, un incantesimo, un esorcismo e un episodio di possessione collettiva. Insieme a quella spirituale c’è anche un’inaspettata componente spiritosa (l’etimo non può che essere lo stesso), in cui di colpo si allontana la sensazione di stare altrove e si ritorna coi piedi ben piantati sull’asfalto della rotonda del lungomare di Taranto – ma è un’illusione, un prendere il respiro per meglio tornare a immergersi nella furia, nel rumore, nelle parti più liriche e malinconiche del concerto.

È una questione di grazia, che tanto più risalta in una città apparentemente disgraziata come Taranto. Di lato al palco c’è il mare con le luci delle navi sospese nel buio come stelle minori sull’acqua nera; lontano, oltre l’isola della città vecchia, si intravedono gli enormi gusci di ferro delle recenti coperture sul Parco Minerali dell’ex Ilva sullo sfondo dello skyline della fabbrica. In centro abbondano i riferimenti a Sparta, ai delfini, mentre i profumi di spaghetti e cozze si mescolano coi gas di scarico delle moto che sfrecciano veloci sul lungomare e i miasmi dei cassonetti dei rifiuti. Dall’altra parte della città svetta insensata come una vela, tra i vialoni e i palazzi moderni, la Concattedrale della Gran Madre di Dio progettata da Gio Ponti – “Gran Madre di Dio”, non suona come il verso di canzone caveiana?

E non è sufficiente questo, per comprendere la magia? Quale città è più viva di una città del genere, dove le epoche, le architetture le gioie e i dolori si riversano l’uno nell’altro senza soluzione di continuità? Il primo nemico della grazia, però, è la retorica: sto per farne, e allora mi fermo.

Ma non riesco a non pensare che Taranto potrebbe essere la protagonista di una canzone di Nick Cave; non un luogo, non Millhaven, ma proprio un personaggio; un’assassina, una donna che ha perso tutto, una vecchia che se ne va sbronza per via d’Aquino canticchiando il testo di From her to eternity… Taranto è insostenibile, e scriverne è infinitamente meno bello e efficace che farci una passeggiata o fotografarla.

Il vero miracolo del concerto di Nick Cave è averci fatto percepire la grazia attraverso il gioco dei pieni e dei vuoti – episodi più rumorosi alternati ad altri quasi sussurrati, voce e piano – raccontando appunto storie di autentica disgrazia, violenza, volgarità, castighi e maledizioni. Motherfucker! Detto così, forse, il rapporto tra il concerto e il contesto suona un po’ meno retorico.

Ma se c’è un punto in cui tutti i festival e i concerti, rock o meno, falliscono, è che sono una bolla all’interno di un recinto; per qualche ora ci sentiamo abitati da qualcos’altro, proiettati in un’altra dimensione – spirituale o anche solo musicale – con i bassi che vibrano nelle viscere e fanno muovere i piedi e cantare tutti insieme. Poi tutto finisce e torniamo alla volgarità senz’appello della quotidianità, quella che non si può in alcun modo trasfigurare in nient’altro di decente, per cui tutto è quello che è e nient’altro. Abbiamo intuito o addirittura percepito distintamente, come sempre accade a contatto con qualcosa di più grande e pieno di grazia, che c’è dell’altro; ma quella sensazione ci abbandona progressivamente nelle ore successive al concerto. Torniamo nudi e crudi alla vita di ogni giorno.

Potremmo concludere che tutto sommato va bene così; che se il rito dell’incontro con la grazia fosse possibile in ogni momento delle nostre vite, allora dove risiederebbe la magia dell’incontro con Nick Cave o con altri artisti del suo calibro? E non sarebbe estenuante? Ci innamoriamo dell’eccezione, forse, perché la regola costerebbe cara: significherebbe riammettere nella nostra quotidianità ciò che tempo fa abbiamo espunto senza pietà dalle nostre vite, stabilendo che solo pochi tra noi erano capaci di sostenerlo di giorno in giorno (il sacerdote, lo sciamano, l’artista). Ecco perché oggi limitarsi a essere e restare pubblico significa vivere male, forse.

Dico forse perché scorrendo i commenti a un post sulla pagina del Medimex con le foto del concerto leggo questo: “From her to eternit”, e allora amen, andiamo in pace. Motherfucker! Rido: e la grazia non mi abbandona ancora.

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