Permangono alla vista solo per pochi minuti, i sette fantocci su cui si apre L’Etang (Lo stagno): poste in un ambiente dal candore lattiginoso, accasciate sul pavimento o appoggiate alle quinte, le bambole sono presto trasportate fuori dalla scena, con disarmante delicatezza, da un tecnico di palco. La loro muta presenza, enigmatica quanto fugace, a tratti sembra poter ingannare la percezione dello spettatore; che siano davvero inorganiche, quelle figure stese sul letto al centro dello spazio? O piuttosto è un abile make-up a celare le fattezze dei performer, a mutarne i volti al punto da renderli cristallizzati in una vacuità di cera? È un’ambiguità teoretica, prima ancora che estetica, quella che Gisèle Vienne sembra volere determinare nei primi, fulminanti istanti della sua nuova creazione, quasi un sigillo posto a una ventennale ricerca svolta non soltanto intorno alle possibilità offerte dal ricorso al puppet, quanto piuttosto ai labili margini tra l’esistenza e la sua assenza, tra umano e post-umano, tra genere e sesso.

Classe 1976, una laurea in filosofia e studi compiuti presso l’École Supérieure Nationale des Arts de la Marionette di Charleville-Mézières, la regista franco-austriaca ha impresso nel teatro europeo una personalissima cifra. Fin dalle regie condivise con Étienne Bideau-Rey – è del 2000 la prima collaborazione, una versione di Splendid’s di Jean Genet – Vienne è sembrata infatti concentrare l’attenzione sulle zone di contatto e conflitto tra l’universo degli attori e quello dei puppet, al punto da confonderne le caratteristiche, sparigliare le aspettative dello sguardo, agire sui corpi vivi come fossero marionette e sulle marionette come se queste fossero di carne e sangue. E L’Etang si inscrive propriamente nel percorso: tratto da un testo teatrale di Robert Walser, affida al gruppo di manichini e a solo due attrici – le straordinarie Adèle Haenel e Henrietta Wallberg – il compito di incarnare un’intera famiglia di personaggi, di suggestioni, di vite possibili.

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Ph. Jean-Louis Fernandez.

Presentato ad aprile nell’ambito del milanese FOG Festival, e approdato in queste settimane prima a Roma, nel cartellone di Short Theatre – all’interno di una densa personale dedicata all’artista – infine a Prato, come evento inaugurale dell’edizione 2022 di Contemporanea, L’Etang condensa nell’incipit lo sfrangiarsi di qualsiasi dicotomia, il meticciarsi dei binarismi ora in un fluire della materia nella vita, ora nel sovrapporsi delle identità.

I fantocci appaiono androgini, finanche asessuati: abbigliati nel look anonimo e globale degli adolescenti, possono essere ragazze o ragazzi, giovani uomini o giovani donne di una qualsiasi metropoli occidentale, colti nella noia di un momento o di un’intera età della vita. Attorno a loro gli avanzi di pasti consumati in solitudine, lattine vuote, uno stereo acceso per offrire un basso continuo alla progressione dei desideri e delle paure: soprattutto un letto sfatto, sul quale due bambole giacciono in un abbraccio tenue.

Svuotata dai puppet, la scena richiama alla memoria la folgorante intuizione di Tracey Emin, che nel 1999 espose alla Tate Britain My Bed, il letto su cui per giorni e giorni aveva cercato di lenire il dolore per una relazione conclusa, tra preservativi, indumenti sporchi, fazzoletti, mozziconi di sigarette. Attorno a quelle lenzuola spiegazzate, ancora calde di un sonno nervoso, permanevano le vestigia di un amore finito, si imponevano alla vista le impronte di un fallimento, i segni di ore confuse trascorse a fissare soffitti e pareti.

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Ph. Ilaria Costanzo.

Un amore infelice è d’altra parte il motore anche dell’esile vicenda di L’Etang, restituitaci dai corpi e dalle voci di Haenel e Wallberg: qui, a soffocare il respiro e contrarre lo stomaco, è la freddezza che il protagonista Fritz percepisce da parte dei genitori, un’estraneità alla propria famiglia talmente lancinante da convincerlo a simulare un suicidio, annunciando il proprio annegamento nello stagno del titolo. Autore del dramma fu, nei primissimi anni del secolo scorso, Robert Walser, più volte citato da Vienne come maestro e fonte d’ispirazione: pubblicato postumo (in italiano è disponibile all’interno del volume Commedia, edito da Adelphi con la traduzione di Cesare De Marchi) il pezzo scenico costituì il macabro e significativo dono che l’autore svizzero offrì alla sorella Fanny in occasione di un compleanno.

Di legami fraterni stratificati e ambivalenti è denso anche il testo, in cui l’invidia e la complicità si confondono in un gorgo di sentimenti vertiginosi e inafferrabili, che il linguaggio appare in grado soltanto di avvicinare: le parole si susseguono inani, le metafore appaiono opache, come se abissi di verità si nascondessero tra i silenzi e i vuoti. Qui, in questa zona grigia, Vienne ha lavorato con ammirevole scavo drammaturgico, amplificando i sensi e individuando i nodi oscuri delle battute, quelle malcelate movenze che le parole pronunciate nelle case di famiglia – nelle nostre case – intercettano solo per brevi, fortuiti istanti.

I campi di tensione tra Fritz e i fratelli, o tra Fritz e i genitori, costituiscono il tessuto al di sopra del quale la regista ricama allusioni su possibili incesti, su sessualità violente e sadiche, sui percorsi che il desiderio condivide con l’orrore. Come doppelgänger, i manichini del prologo manifestano altre esistenze, vite gemellari invisibili ma ciò nonostante reali: sono fantasmi della psiche, proiezioni e rimossi, traumi e incubi (e non a caso, Bernard Vouilloux ha intitolato Palcoscenici fantasma il volume dedicato all’artista e pubblicato in Italia da Nero all’interno della collana Short Books, ideata in collaborazione con Short Theatre)

Commovente è così la cura con cui i fantocci sono condotti dal tecnico dietro le quinte: a muovere quell’uomo – tragicamente fuori scena, fuori dal palcoscenico della vita di Fritz – è il rispetto dovuto alle fragilità, alle cicatrici, alle ferite che quelle bambole sembrano recare su una pelle di stoffa e legno. Azione meccaniche imbrigliano invece le superbe Adèle Haenel e Henrietta Wallberg, la cui gestualità le costringe, in un estenuante slow motion, a una fissità degna di un tableau vivant. Il loro ingresso, dall’angolo destro del palco ora privato dei fantocci, ricorda l’analoga diagonale in ralenti che apriva Crowd, presentato alla Biennale Teatro del 2018, poi replicato a Centrale Fies nel 2019 e in questi giorni in scena a Roma: una perturbante camminata di esasperante lentezza, una sequenza di passi millimetricamente scomposta in singoli istanti di immobilità.

Il chirurgico lavoro sul corpo, la fotografica attenzione alle singole posizioni assunte nello spazio – che in Crowd, dedicato alla cultura del rave, raggiungeva vette di eccezionalità – sono qui latori di ulteriori prospettive: essi evidenziano un’insanabile discrasia tra corpo e voce, un’impossibile pacificazione tra parola e azione, che si succedono senza consequenzialità, senza punti di tangenza, illuminando soltanto le linee di forza – fisiche, ma soprattutto psicologiche – che abitano la casa di Fritz. Perennemente in ritardo sul ritmo dei sentimenti, i tanti protagonisti del dramma di Walser inseguono le parole e i loro reali significati: il linguaggio si rivela sempre fallace, forse addirittura inutile.

Il suicidio stesso, pubblicamente annunciato, è d’altro canto solo un bluff, una bugia che nasconde un atroce bisogno di amore, e Vienne esaspera questa natura ipocrita della lingua affidando alle attrici una pluralità di ruoli. Le battute di Fritz, dei compagni di gioco Paul e Klara, del padre e della madre si succedono così senza intervalli, rendendo spesso difficile afferrare appieno l’intreccio e il susseguirsi dei singoli episodi: eppure, in questo affastellarsi di discorsi ai quali non corrispondono gesti sensati o azioni coerenti, a emergere in tutta la propria deflagrante potenza è il grumo di passioni oscure che agitano le anime in scena. Al di sopra di un tappeto acustico che mixa sonorità techno a versi ferini, Haenel e Wallberg ora si accasciano sgonfiate dal dolore, ora si impongono scultoree e seduttive, ora cercano impossibili contatti, mostrando le ancipiti, irresolubili torsioni emotive che ne legano le tante incarnazioni.

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Ph. Ilaria Costanzo.

L’Etang, in questo senso, si impone come una freudiana sonda gettata nella ferocia dei legami familiari, una mitteleuropea e primonovecentesca denuncia della brutale violenza compressa nelle relazioni codificate dai vincoli parentali. Ma è anche uno sguardo di stringente contemporaneità sulle adolescenze, l’età in cui ciò che non si è appare più facile da delineare: tema trasversale in tutta la produzione della regista, l’età di mezzo tratteggiata da Vienne appare come uno spazio aperto, nel quale le pulsioni deflagrano con esiti imprevisti e non sempre innocenti. Jerk, creazione del 2008, è la ricostruzione immaginaria di una serie di omicidi perpetrati negli anni Settanta dal serial killer americano Dean Corll e dai suoi complici teenager; i raver di Crowd sembrano accostare esplosioni di violenza a gesti di affetto; l’autolesionismo di Fritz non è esente da una studiata crudeltà.

Metamorfica è anche l’espressione di genere che i corpi dei performer propongono sulla scena, in una fluidità dei ruoli – scenici e sessuali – che mostra la sensibilità di Vienne verso le trasformazioni in corso nell’arte tanto quanto nella società. E tuttavia la regista franco-austriaca sembra tradire qualsiasi pacificata adesione alle istanze attuali, promuovendo esperienze che rifuggono dalle rassicurazioni e dagli schematismi etici, sfidando il pubblico a intraprendere un riconoscimento, un rispecchiamento in quelle esistenze borderline ed eccessive che si dipanano sul palco. Vite di confine, così lontane dalla nostra quotidianità – così simili a noi, disposti a tanto, a tutto, pur di sentire un po’ di amore addosso.

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