Parto da Nabokov, dalle Lezioni di letteratura: “Non dimentichiamo che l’opera d’arte è sempre la creazione di un mondo nuovo”; e ancora: “l’arte dello scrivere è un’attività assai futile se non comporta anzitutto l’arte di vedere il mondo come potenzialità narrativa”. Il problema individuato da Nabokov era se ci si potesse aspettare o no, da un romanzo, e in generale dall’opera di un vero autore, informazioni affidabili su un luogo o un periodo storico, e la risposta era sostanzialmente negativa, o almeno negativa in prima battuta: da buoni lettori, infatti, occorrerebbe anzitutto osservare da vicino questo nuovo mondo creato dal grande autore, se lo ha creato, poi chinarvisi sopra, vederne la miracolosa unità sotto le metamorfosi, le ricostruzioni, le effrazioni e rifrazioni derivate dall’atto del narrare. Solo dopo, dice Nabokov, sarebbe il caso andare ad analizzare i legami con altri mondi e settori della conoscenza.

Mi sembra un approccio adeguato ai testi di Dolores Prato: pochi autori, infatti, hanno voluto vedere più di lei il mondo, e la propria vicenda nel mondo, come autentica “potenzialità narrativa”; pochi hanno preso tanto sul serio il dato di realtà col solo scopo di eluderlo continuamente, sprofondare nella descrizione dettagliata di oggetti, paesaggi, episodi esistenziali per farne perdere le tracce, e quindi ricreare un mondo nuovo, con pochi punti di riferimento certi al di là delle decisioni imperiose della narrazione, queste ultime versate sempre dentro opere che potremmo definire “aperte”.

Il cumulo di carte lasciate da Dolores Prato, se da un lato mi sembra testimoniare una lotta estenuante con l’autobiografismo e la prima persona (rifiutati con una certa costanza, emarginati nell’appunto estemporaneo e solo alla fine della vita, per necessità anche biologico-esistenziale, accettati come modalità di organizzazione dei contenuti pienamente letteraria, nonostante quel che ne potessero e ne possano ancora dire critici letterari, studiosi e recensori), ecco, se da un lato mi sembra il frutto del lavoro di un’autrice che combatte con idiosincrasie letterarie insieme proprie e del suo tempo e alla fine capitola davanti al proprio eccezionale modo di scrivere e di guardare, al proprio modo di creare artisticamente un mondo (anche perché la fine della vita si avvicina e in ultimo giunge), dall’altro ha tutto l’aspetto di una donazione di fiducia alla potenzialità narrativa di questo mondo, e nella fattispecie del mondo in cui si vive, del mondo in cui si è vissuti.

Dolores Prato ha creato più di un mondo, nelle sue diverse opere aperte, e lo ha fatto con anni di lavoro sulla memoria, sul quotidiano e sulla documentazione che possedeva al riguardo degli oggetti dei suoi testi (come attesta il carteggio con Giorgina Morbidelli durante la messa in pagina di Giù la piazza non c’è nessuno). Ma un simile lavoro che si è concretizzato anzitutto in scrittura, e in scrittura letteraria, dentro testi che, più o meno finiti o ritenuti tali, inclinano sempre verso la forma della narrazione, anche quando assumono l’aspetto del saggio, dell’articolo del giornale o sarebbe forse meglio dire del pamphlet (i pezzi giornalistici di Dolores Prato erano sempre troppo lunghi, imprevedibili, recitati come da un pulpito, e infine di taglio non adeguato ai giornali dove pure è riuscita a pubblicarli).

Per farsi un’idea di questa testarda trasformazione in racconto perlopiù “narrato” e quasi “parlato” (sta proprio nei Sogni il desiderio di scrivere un libro recitandolo a registratore) dei dati di realtà, è sufficiente prendere anche un laboratorio a caso tra quelli lasciati aperti dalla Prato – consiglio vivamente però, a chi volesse, di porre l’attenzione su quelli, di antica fondazione, intitolati “Luoghi” o “Io”, dove peraltro si troveranno passaggi e descrizioni direttamente riversati nelle opere tarde, quelle in cui prende forma il narrare “per lasse” dell’autrice.

Il libro dei Sogni, in quest’ottica, rappresenta un caso particolare: a lungo infatti Dolores Prato pensa alla registrazione delle proprie esperienze oniriche come a un filone di scrittura buono sostanzialmente per operazioni di riuso nelle grandi opere a venire che progetta. Alla fine della vita, però, donando le proprie carte al Vieusseux, ne parla come di un’opera in sé coesa, seppur fatta di racconti autonomi, di tasselli che possono anche esser pensati come indipendenti, infine come una raccolta di “racconti onirici” (la definizione è della stessa Dolores Prato).

Le due anime, i Sogni come materiale di riuso e come raccolta di “racconti onirici”, rimangono compresenti nel testo dai primi pezzi agli ultimi, così che è possibile osservarlo in una doppia dimensione: come un laboratorio in cui Treia e Roma diventano quel che sono nelle opere pubblicate in vita o ereditano l’aspetto già assunto in Sangiocondo o in Giù la piazza o in Le Ore (il primo sogno è degli anni Venti, la maggioranza degli anni Cinquanta e Sessanta, gli ultimi sogni sono posteriori alla confezione di questi volumi), e come opera a sé stante, dove Treia e Roma, in ogni racconto, sono componenti del “mondo nuovo” che Dolores Prato riesce a costruire attraverso la registrazione letteraria dei propri sogni; un mondo che non assomiglia in tutto e per tutto a quello organizzato in altre opere.

Vale la pena di seguire il filo di questo secondo aspetto, tenendo però sullo sfondo, e sempre presente, il primo, vista la natura anfibia dell’opera di cui sto parlando. A livello generale, Roma e Treia convivono nei sogni con un numero impressionante di altri luoghi, da Barvica ad Acquatraversa a Cortona a Perugia alle molte piazze, campagne e città nuove immaginarie o non meglio identificate da scoprire o dove si muove l’azione del sogno: non hanno, in una parola, quella centralità che si può osservare in altri testi, dove Treia e Roma (ma anche San Ginesio) diventano autentici protagonisti, con altri luoghi a far da comparsa o da puntello a riflessioni ed epifanie decise dalla memoria che si trasforma in narrazione. Roma e Treia, all’interno dei sogni, non hanno lo statuto dei protagonisti, ma di semplici personaggi tra gli altri – uomini e luoghi –, al pari di tutti gli altri personaggi immessi in una macchina onirica che prende il via da una realtà qualsiasi (una parola, un nome, un monumento, un ricordo) e la deforma per ricostruirla.

In genere, nei Sogni Roma è la città dell’età matura, la città dove è morta la zia Paolina e, per stare sulle soglie reali del sogno, quella in cui, senza avvertirne il lettore, si sogna e si abita (i “qui” del testo sono sempre riferiti alla “città eterna”), mentre Treia è la città dell’infanzia, quella che non si è più riveduta e che tuttavia nel sogno è viva, presente, ancora come la zia Paolina: il luogo dove si torna o si vuol tornare ad abitare o a camminare dopo molto tempo, in compagnia di personaggi dell’infanzia, dell’adolescenza, della maturità.

Per dire più nel dettaglio, la Roma che entra nei sogni è quella di San Pietro, uno spazio che ricorre spesso, e poi quella “vecchia” delle viuzze e delle stradine, ma anche quella già labirintica ed inondata dal traffico di gente e mezzi degli anni Sessanta che sperde e disperde Dolores Prato, e soprattutto quella delle case di amici e conoscenti, di luoghi del passato come l’ospizio di Santa Galla, distrutto sotto il fascismo per dar posto all’anagrafe, o molto frequentati come la Casa di Dante, di nuovi supermercati e di antichi o vecchi negozi e botteghe in via di sparizione (da Moriondo a Angelino di Tor Margana alla sperdutissima parrucchieria dove si incontra il diavolo alla latteria “il grappolo d’oro”, poi divenuta bottega): spazi chiusi dunque, in primo luogo. I posti “nuovi” sono guardati con sospetto e pronti a durare, quelli noti e antichi sono sempre minacciati di finire, o di diventar altro, a tal punto da trasformarsi in ricettacolo di misteriose e inquietanti manifestazioni di presenze o di assenze tra le più dolorose. In tutti i casi, questi luoghi subiscono violente trasformazioni, come accade nella prima apparizione di San Pietro, dove l’io che sogna perde una borsetta e perde la zia Paolina: sulle prime si è dentro una chiesa enorme, non meglio specificata, questa chiesa si trasforma in San Pietro, con dentro però una sorta di mercato (la stoccata contro il mercanteggiare del Vaticano, sebbene banale da annotare, è presente), infine si arricchisce di uscite per accogliere e far passare la gente che annuncia all’io che sogna la morte della zia Paolina, quasi immolatasi in onore della borsetta dell’io che sogna – la morte della zia è elemento ricorrente nei sogni (da ricordare almeno il pezzo La scala).

Di Treia si sogna in tempi non sospetti (negli anni Cinquanta) lo spaccato che s’incontra alle prime pagine di Giù la piazza non c’è nessuno (“ecco il duomo, la piazza, San Marco, ecco tutte le sue stradette, quelle più alte non coprivano con le loro case quelle più basse, ecco San Girolamo, ecco la guglia, ecco la strada che si biforca, un ramo va a Bell’amore, uno al cimitero”). Ma senza alcun dubbio c’è un sogno, in particolare, a dimostrarla come città recuperata per via di un’immagine onirica di forza parziale, torturante, che sminuzza e trasforma quel che ben si conosce, e lo fa diventare racconto. Il pezzo è del 1968; nel sogno si è visto, di scorcio, un pezzetto di Treia: “non in realtà”, sottolinea ancora l’autrice, ma “in riproduzione fotografica”. In un’esposizione di fotografie grandi come quadri, si scorge una foto “strana”, presa da “una porta socchiusa”: ecco San Marco di Treia, riconosce Dolores Prato, che era sì “senza ripiani” nella foto, ma nello stesso tempo è riconosciuta come San Marco nel sogno (dunque non semplicemente gli “somiglia”).

Questo meccanismo di trasformazione e riconoscimento dei luoghi, tanto facilmente riscontrabile nella pratica del sognare comune, è il dispositivo letterario pressoché unico e per nulla banale cui vengono sottoposte tanto Roma quanto Treia nei sogni. I paesaggi noti sono sempre coperti da una lente che ne rende incerta l’identificazione (per esempio lo sguardo è compromesso da un ostacolo) e inoltre non sono come sono nella realtà, ma sono quei luoghi (a San Marco mancano i ripiani, a Piazza San Pietro si aggiunge un’entrata, a Piazzale san Giovanni si toglie il traffico). Quel che ne discende è il tradimento di ciò che Roma e Treia rappresentano, rispettivamente, nel mito tanto storiografico e nel mito della memoria costruiti su questi luoghi da Dolores Prato. E ciò che ne esce è ovviamente una diversa mitologia, luciferina, in questo caso, sulle due città, fondamentalmente unite da un sentimento di odio-amore da parte della Prato, di desiderio e rifiuto, molto vicino a quel che possiamo dire l’autrice imbastisce, a livello letterario, con il personaggio della zia Paolina, che è la presenza più ossessiva nei sogni, per ammissione della stessa autrice, nonché la figura che in Giù la piazza, lo ricordo per inciso, raccomanda alla nipotina di non raccontare mai i propri sogni.

Dunque i due oggetti narrativi hanno molto in comune: nei sogni, sono due città cui ci si rivolge con desiderio di accoglienza e di comprensione e che si trasformano sempre in prigioni o labirinti.

La realtà che puntualmente nega il proprio abbraccio nel quotidiano è Roma, la città in Voce fuori coro amata e torturata dal moderno; la realtà che puntualmente nega il proprio abbraccio nel passato, e un compimento nel presente (non vi si ritorna, quando vi si ritorna si rimane delusi), è Treia. Così Dolores Prato trasforma la scrittura in una sorta di vendetta sul destino, un modo per guardar meglio, da una prospettiva per così dire contemporanea a se stessa, e con più profondità, tanto il mito storiografico su Roma quanto il mito della memoria costruito su Treia: il collegio diventa ricettacolo di corpi malati e vogliosi di sesso omosessuale delle monache fin dagli anni Cinquanta; già a questa altezza, la spettrale  “casa del mistero” che tanta parte avrà nelle pagine di Giù la piazza è una prigione dove sarebbe impossibile vivere e tornare a vivere; negli anni Settanta (27 ottobre 1974) si registra un lungo sogno dove appare Eugenia Valentini, ambientato in una “Treja dove manco dall’infanzia” e che nega ancora una volta il ritrovamento della tomba dei Ciaramponi, della famiglia d’origine degli zii. L’entrata al cimitero di Treia si trasforma così in una faticosa scalata a una parete (“quell’ascesa la sentivo come una vittoria della vita sul mio destino”) e poi in una corsa libera, quasi un volo per il cimitero, dove si trova una lapide che assomiglia a quella dei Ciaramponi ma non riusciamo a capire se lo è o meno, al pari dell’io che sogna: come a dire che il mondo nuovo costruito nei sogni consente una rivincita sui luoghi, consente di superarne la mitologia incantata dell’infanzia, cioè permette di guardarli meglio, ma solo per confermare l’impossibilità di ripescare compiutamente le radici, il filo della propria esistenza.

Quanto a Roma, ecco i suoi appartamenti zozzi e deprimenti, ricavati da uffici già dagli anni Sessanta – simboleggiati dalla casa delle Bartalini, dove il mito storiografico della decadenza della città romana e quello privato e quotidiano dell’autrice s’incontrano e diventano altro – mentre l’acquisto di un appartamento nel centro, sempre a quest’altezza cronologica, ad un certo punto consente di costruire una visuale che finalmente gulliverizza la città: la fa guardare al sognatore come se “tu fossi più alta e lei più bassa”, dominabile, dunque, ridotta a modellino scomposto (anche per questo amato) e insieme a distante formicolio di problemi di movimento e di relazione che rappresenta quotidianamente, come vediamo per esempio dalle lettere, per l’autrice.

Sotto il segno della gulliverizzazione si pone anche, nei Sogni, il meccanismo delle epifanie che ben conosciamo da Giù la piazza non c’è nessuno, dove si parla, come è noto, dei pezzi di Treja che riemergono dopo il trasferimento a Roma, e di una Treja che finisce per coprire col suo nome tutta la città eterna: una “periferia” che si sovrappone e quasi va a sovrastare un “centro”. Ma “il centro non esiste”, nei sogni – “il centro non esiste” è il titolo di un racconto onirico tra i più belli –; esistono invece continui mutamenti di prospettiva, e continue sovrapposizioni, come si vede in un altro sogno ancora, del 1958, che per finire definirei esemplare del modo di strutturare il “nuovo mondo” onirico da parte di Dolores Prato in relazione a Roma e Treia e ai luoghi sognati in genere.

L’io che sogna deve trovare un numero di una marchesa, non riesce, trova solo quello di una raccapricciante azienda in via Flaminia – forse una conceria già adibita a rifugio nazista e all’epoca dismessa –; riesce infine a giungere al palazzo della marchesa, dove si sta organizzando una congregazione religiosa, di monache mondane, le “monache rosse”, in occasione della vicina e prossima morte della marchesa stessa. Uscendo dalla villa, l’io che sogna vede un braccio di mare, e poi un monte con due torri in cima:

 

Lo riconosco e il cuore mi dà un sobbalzo per l’emozione…

– È Pitino!

– Sì, è Pitino. Lo conosce?

– Pitino! Se lo conosco! Lo vedevo sempre da piccola, però

lo vedevo dall’altra parte. E non lo vedevo così chiaramente.

Qui vedo le sue rughe, le sue rocce, le sue macchie! Lo vedevo

dall’altra parte. Ma questa villa allora deve essere dalle parti

di Ancona.

– Precisamente!

– Già, c’è il mare. In principio ho pensato che fosse il Conero.

Invece è Pitì, il mio Pitì che non ho mai potuto vedere da

vicino.

E estatica guardavo.

Il viale, il cancello, un po’ di verde, il poco mare, il monte

alto, grande, vicino senza opprimere. Dico:

– Una cosa così bella non l’avevo vista mai!

E l’emozione per questa bellezza mai vista, era una emozione

mai provata così grande.

– Vada dunque a vederlo da vicino.

E io esco, attraverso la terrazza, scendo la scalinata, percorro

il viale…

… ma che succede? Il monte diventa sempre più piccolo,

più piccolo, più piccolo. No… che succede? Ecco sono arrivata.

Il monte è qui… eccolo. Un piccolo promontorio di terra

alla fine del viale. Sta di sbieco come un piccolo rialzo al margine

del viale, dopo il fosso. È un piccolo mucchio di terra.

E io grido:

– Ma questa marchesa allora è la marchesa Spada!

– Perché? – mi chiedono.

Io non rispondo. Sto pensando: «Nel Palazzo Spada c’è lo

stesso inganno. Un guerriero gigantesco che diventa piccolo,

sempre più piccolo mano a mano che ti avvicini. E quando sei

lì è come questo, come quel monte».

 

Pitino viene visto nei sogni dalla parte opposta a quella consentita dal ricordo dell’infanzia, infine da Treia come punto di osservazione sul mondo; e a questo paese mai visitato, il mondo onirico consente invece di avvicinarsi, per vederlo però ridotto a un mucchietto di terra: un mito positivo, dunque, che diventa polvere, immagine inadeguata a resistere non alla prova della realtà, ma a quella del mondo nuovo costruito nel sogno, dove Treia non è tanto un luogo quanto una lente, un modo di guardare rappresentato nel momento stesso in cui si rivela fallace. Anche a Roma vien fatta gettare la maschera: rovesciando il sistema di Giù la piazza, intessuta di epifanie treiesi dentro il tessuto romano, in questo sogno diventa essa stessa epifania in uno spazio onirico tutto marchigiano (ricordo per inciso che c’è una villa Spada, alias villa La Quiete, anche nei pressi di Treia), e mentre lo diventa mostra che la sua grandezza è frutto esclusivo dell’occhio che la guarda (a Palazzo spada c’è infatti una statuetta di epoca romana posta dal 1861, per volontà del Principe Clemente Spada, in fondo alla celebre «Galleria Prospettica» del Borromini che, tramite alcuni accorgimenti tecnici, crea l’illusione della profondità e delle dimensioni assai notevoli della statuetta, in realtà piccolissima).

Traditrici entrambe, dunque, la Roma e la Treia dei Sogni di Dolores Prato. Ma entrambe traditrici splendide, perché portatrici di brevissimi stupori, spaesamenti, e grandi scontenti sempre frutto dell’occhio che li guarda, li sminuzza, li mescola, li rende oggetti narrativi di eccezionale valore letterario, che recalcitrano davanti tanto al mito storiografico quanto al mito della memoria e che impastano l’uno e l’altra con una sorta di fantastico quotidiano non sempre rintracciabile nelle scritture di Dolores Prato: lucidamente e dolorosamente adulto.

 

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