Abbiamo visto “ Sacro GRA “ regia di Gianfranco Rosi.

Il mondo alla fine del mondo che poi si trova a poca distanza dal nostro naso.   Il G.r.a. sta per grande raccordo anulare di Roma, una fascia di cemento circolare che è attraversata ogni giorno da centinaia di migliaia di auto.  Come qualsiasi opera realizzata in Italia ha una serie di incoerenze evidenti  come i numerosi svincoli non numerati, oltre a incongruenze nella successione numerica.   E il “ GRA “ docu-fiction è realizzato da Rosi come una metafora di un mondo ai margini, raccontata scegliendo i nuovi ‘ freak “ che a differenza però di quelli originali non hanno nessuna vera differenza con le persone ‘ comuni ‘, né una particolare empatia né una diversità esistenziale né una coscienza di ‘ classe ‘ o da èlite marginale.  Ed è questo che nuoce fondamentalmente al film, si raccontano storie ( piuttosto approssimative ) di esseri umani nella tormenta ma senza un particolare affetto né stando addosso alle rughe dei personaggi; l’idea è di una visione oggettivizzante e priva di scelte da parte dell’autore.   Quindi i trans al chioschetto sono i trans che si possono incrociare di sfuggita mentre passiamo con l’auto a sessanta all’ora e così le prostitute, i ragazzetti nel bar che guardano due povere ragazze immagine che ballano sul bancone.  E così i personaggi che vengono ripresi come in un kammerspiel, con una finestra a fare da frame nel frame: una rappresentazione teatrale con inquadratura fissa e unica alla finestra della loro stanzetta.  A questi si aggiungono carabinieri in lontananza, infermieri e portantini che accompagnano in ospedale feriti e umanità varia.

A questo si aggiunga che non c’è – per scelta, immaginiamo – nessuna consecutio temporum narrativa e nessuna crescita di storie: tutte orizzontali e tutte senza alcun pathos.  Si passa dalla neve al sole, dal cemento al fiume, dal raccordo affollato ad una casa dal lusso pacchiano, dalla notte al giorno e viceversa  in pochi attimi.

Rosi sembra scegliere il Raccordo Anulare come un luogo che collega esistenze ma allo stesso tempo porta in tondo in modo infinito; usa un racconto che tocca tangenzialmente esseri umani che mai hanno un attimo di sollievo o leggerezza: un’umanità ‘ alla fine del mondo ‘ che, come le auto che passano fuggendo, vengono attraversate superficialmente e non basta un rispetto civile dell’autore per rendere il tutto degno di essere giudicato Umanità.  I protagonisti sono molti, ‘ normali ‘, eccentrici, drop out , sciccosi ma tutti rischiano nel teatrino della vita di rasentare lo stereotipo fino alla macchietta.  E anche quando si assiste in un cimitero all’apertura delle bare con relative spoglie umane ( con relative fosse comuni e neve ) sembra che tutto sia dato per dato senza alcun racconto.   Tuttavia il lato positivo di questa scelta registica è il non compiacersi mai di esseri umani facilmente ghettizzabili, giudicabili né ci vuole mostrare con falsi moralismi nel bene o nel male queste umanità al termine del mondo.  E in tutto questo docu-fiction la dissoluzione di un’umanità è rappresentata all’inizio e alla fine dai parassiti delle palme che vengono controllati e studiati da un tecnico che con un registratore ascolta questo corrodere dall’interno le palme ( e quindi la nostra società ? ).

Intorno a questo Sacro cerchio ( il Grande raccordo anulare) vivono in un monolocale un nobile piemontese decaduto con figlia sempre al computer e forse alla ricerca dell’amore; nello stesso stabile moderno abita una signora che non sopporta il silenzio del luogo privo di bambini e di esseri umani, e un dj indiano sempre al lavoro.  C’è poi un anziano pescatore d’anguille con relativa compagnia dell’est, l’esperto botanico che combatte la morte delle palme, un paramedico che ha una madre affetta da demenza senile e un po’ defilato e in un castelletto elegante e kitch un nobile che vive con la compagna giovane e una bambina di pochi anni e che tra statue del Buddha e divani leopardati affitta la sua casa per set di fotoromanzi.   E poi feste fatte da latinoamericani in piazze di cemento e desolate, prostitute, transessuali, ragazzi di periferia, delle ragazze immagine di un bar, alcuni fedeli che osservano un’esclisse al Divino Amore attribuendola alla Madonna.

Rosi ha impiegato due anni ( e centinaia di ore di filmati ) per fotografare un luogo che non conduce a nulla, con personaggi che non portano da nessuna parte nemmeno  ad una solidarietà cristiana o semplicemente civile da parte dello spettatore.

Gianfranco Rosi è un documentarista cinquantenne nato ad Asmara, ma con nazionalità italiana e americana.  Ha studiato alla New York University Film School e il suo primo mediometraggio è stato  “ Boatman “ ( 1993 ), un bianco e nero girato sulle rive del Gange in India.   Nel 2001 presenta alla Mostra del Cinema di Venezia “ Afterwords “,   e nel 2008 “ Below Sea Level “, una storia di homeless che vivono a quaranta metri sotto il livello del mare in California.  Nel 2010 gira il lungometraggio El sicario – roon 164.  un’intervista di un sicario messicano. Dirige inoltre varie pubblicità progresso e un mese fa il suo documentario Sacro Gra, inaspettatamente, ha vinto il il Leone d’oro al miglior film alla 70ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.

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