«Gadda ha la mano pesande, la mano pesande»: non lo dice il commissario Ciccio Ingravallo, ma — allo stesso modo, ubiquo ai casi — Benedetto Croce, al quale il gran lombardo risponde idealmente con un signorile «aveva ragione». Di Carlo Emilio l’amato Montale (unico tra i connazionali contemporanei che stimasse veramente) racconta alcuni aneddoti gustosissimi che spiegano in parte la concrezione inimmaginabile dei suoi entretiens. In una circostanza, il romanziere fuggì dalla finestra di una casa di amici che lo avevano ospitato o meglio trattenuto, tra ritardi, cincischi e acquazzoni, per tre giorni. In un’altra occasione (il racconto è mediato dai ricordi della Volpe), nella villa dei Rodocanachi, dopo una cena sobria — causa il «viso da Venerdì Santo» di Montale, commensale inappetente dell’Ingegnere, tanto da farlo sentire in colpa ogniqualvolta venisse servito il bis — Gadda, che pure aveva una fame preistorica (esattamente come Gonzalo Pirobutirro), chiese di uscire in giardino per «esigenze peristaltiche». In realtà, si reca a bell’e meglio in un’osteria, dove ordina una bisteccona al sangue. Esce senza pagare, per la fretta di tornare alla festa. Solerte, il proprietario manda un fattorino alla villa per il saldo: la signora (Lucia Rodocanachi, ghost-translator dei maggiori scrittori dell’epoca), divertita, paga il conto. Il giorno dopo si scusa con Gadda per il fatto che la sua cucina non fosse «all’altezza della sua fame»: com’è facile immaginarsi, per il garbato ma iroso milanese, la «tragedia» è «imperdonabile», e il reo Montale è preso per il bavero nei corridoi dell’abitazione.

Non c’è stato uomo nel mondo delle lettere che più abbia sentito addosso il peso e la nevrosi dello scrupolo, la possibilità cosmico-storica di compiere memorabili figuracce: perpetuamente turbato, preda di remore e gnommeri laceranti, personaggio alfieriano par excellence, Gadda non poteva che svolgere il lavoro giornalistico e saggistico a modo suo: con geniale fervore e ineccepibile sintassi, ma anche con un grado di comprensibilità che disattende e disarticola tutte le regole della comunicazione. Informarsi di un libro attraverso Gadda significa avere le idee meno chiare di prima, entrare nell’arzigogolo dell’eccesso d’informazione, del cavillo, e dunque raggiungere, con la forza del coltissimo e sempre pasticciato chiaroscuro lessicale, un grado di disinformazione suprema: accedere non al vient de paraître (neanche di sghimbescio), ma al libro letto da Gadda, agli antipodi del mito rousseauiano-raboniano del “buon recensore”, filtrato dalla sua angosciosa penna deformante e reso oggetto completamente diverso, per non dire antifrastico, rispetto all’originale. È proprio questa l’altissima sfida teoretica dell’Ingegnere: via le «edificanti frottolazioni», la «lindura faraonizzata» di una vereconda lingua standard: l’obiettivo è lo «stile necessario» e la «“gnosi propria”, nemica di “ogni verbale conformità”», come sottolinea la curatrice Liliana Orlando nell’ottima Nota al testo di Divagazioni e garbuglio. Saggi dispersi («Biblioteca Adelphi», pp. 553, € 26), la raccolta pittorescamente eteroclita degli interventi critici di Gadda su riviste e quotidiani.

 

 

Il libro è diviso in sei parti che variamente attestano le idiosincrasie culturali dell’autore: nei Conforti della poesia figurano, tra gli altri, la celebre Apologia manzoniana, due saggi su Montale, il Catullo di Quasimodo, le poesie di Carlo Porta; nella seconda sezione, La battaglia dei topi e delle rane, un bell’articolo sul latino; Il cetriolo di Crivelli è dedicato ai contributi artistici; La cena delle beffe al teatro; Palombari sull’Alpe ai luoghi e alle architetture; Divagazioni e garbuglio, sezione omonima e title-track conclusiva, con scritti ibridi e visionari. Divagatore più eccitato di Walser, lettore e spettatore spesso entusiasta, in questi testi scritti tra il 1927 e 1968 Gadda sembra non stancarsi di esprimere la sua visione del mondo e, quindi, la sua rilettura originalissima delle opere: il disordine anzitutto delle parole che spirano direttamente dal logos, l’infinito ingrandimento e sfaldarsi della lente cognitiva di fronte ai fatti, certo dell’impossibilità epistemologica della soluzione unica di un caso (come sarà per don Ciccio).

Memorabile è il Manzoni gaddiano, personaggio a sé di un romanzo immaginario, «Don Alessandro», che apre e chiude il volume, improvvisamente associato a «Michelangiolo Amerighi», il quale «veste da bravi i compagni di gioco di San Matteo» nella famosa tela custodita a San Luigi de’ Francesi. «Che cosa avete mai combinato, Don Alessandro, che qui, nella vostra terra, dove pur speravate nell’indulgenza di venticinque sottoscrittori, tutti vi hanno per un povero di spirito?». La risposta parziale alla conclusione dell’Apologia manzoniana, pubblicata su «Solaria» nel gennaio del ’27, risiede appunto nel pezzo Divagazioni e garbuglio, apparso per la prima volta in «Paragone. Letteratura»: essendo il «lavoro» «imposto con suggerimento o preghiera o ingiunzione obligante», «dirò dunque, per divagazioni quello che mi piacerà dire con libero estro: (libertà del pensiero è il torrone rompidente che ogni ideologo si compiace di sgranocchiare da mane a sera)». E allora: «Sono a lui dedicati da Don Alessandro quegli endecasillabi in morte di Carlo Imbonati che scottavano sotto il sedere a Don Alessandro a Brusuglio»! La libertà di scrivere a proprio talento contro il grigiore ripetitivo dei «sottoscrittori»; libertà di un barocchismo ontologico, di un ridisegnare le ragioni stesse del genere saggistico e del feuille de journal attraverso un arcuato strizzare l’occhio.

E cosa succede? Gli Essais critiques di Marcel Arland sono un «libretto di mole gradevole»; il Faust tradotto da Manacorda evita «le fiorite grazie de’ nostri cari toscanèsimi» e «gli stenti lombardi»; Montale è «amarulento com’è il pètalo dell’oleandro o il sentore dell’eucalipto», ma anche: «quando uno o una gli urta i nervi, è lo spasso. La sua icastica abituale si alluzza allora in una epifania di trovate, a base di senape e di pepe di Cajenna. Il malumore lo shakespearizza» (il riferimento al pepe di Cajenna è forse una reminiscenza da Dostoevskij); a Riccardo Bacchelli «per dirne una, è piaciuto di romanzare tutto al contrario»; l’ideale traduttore di Catullo «deve scordarsi d’essere una persona ammodo, un buon padre di famiglia»; Palazzeschi è «il pietoso e talvolta poco pietoso notaro di quelle anime e di quei corpi che vivono un poco ai margini del fulgore centrale delle generazioni»; le iridi di Ungaretti sono «color pervinca, da parer quelle d’un matematico o di un denegante contabile, mentre la contabilità e la denegazione sono sconosciuta disciplina al suo cuore e ignota prassi per un portafoglio sincrético e a un tempo idealmente scucito»; qualcun altro è, semplicemente, un «bischero».

Gadda critico — come ci aveva già abituato il Gadda panpsicologo di Eros e Priapo — è un censore (più che un recensore) che tende «a vedere nei libri e nei problemi (non soltanto letterari) altrui pretesti per ragionare dei propri» (Roscioni). La solitudine essenziale, per usare un sintagma di Blanchot, con cui egli legge le opere altrui, lo porta a esorbitare dalla misura dell’elzeviro per ricondurre, lutulentus, allo specchio della propria soggettualità di «consumato chroniqueur» il frammento confessionale, senz’altro confessionale, della borgesiana vita vissuta tra i libri. E questo nonostante la penna del romanziere prevalga nitidamente sui tempi giornalistici. Insomma, come rivelò a Contini, Gadda pubblicista si sentì spesso — e non fatichiamo a credergli — «nelle condizioni di un cavallo che fosse invitato a far pipì in un bicchierino da liquore».

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