Uomini sotto il sole di Ghassan Kanafani l’ho trovato a due euro in una libreria dell’usato ed è forse questo che me lo rende un po’ glorioso: il fatto che (almeno ai miei occhi) sia un ritrovamento e, in un certo senso, anche un libro sopravvissuto. Scritto nel 1963, la sua traduzione in italiano risale al 1991: poca o nulla speranza di trovarlo a scaffale in qualsiasi altro tipo di libreria.

Personalmente ho questo vizio. Se comincio a appassionarmi a qualcosa, ad esempio un autore i cui libri non si trovano più in giro,di quell’argomento divento una specie di fanatico fissato. È successo così per autori italiani come Bianciardi o Manganelli, di cui negli anni ’90 non si trovava quasi niente in commercio: per circa tre o quattro anni ho raccattato di tutto, scovandone i libri nei posti più impensati. Poi, pur continuando ad ammirarli, quando alcune case editrici hanno cominciato a ristamparne i volumi sono guarito e la mia fissazione per questi autori si è notevolmente calmata.

Kanafani è considerato uno dei maggiori scrittori palestinesi del ‘900. Rifugiatosi in Libano nel 1948 in seguito a quella prima guerra arabo-israeliana che gli arabi chiamano “la catastrofe”, ha poi vissuto in Siria e in Kuwait. Attivista del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina, è stato assassinato nel 1972.

Uomini sotto il sole racconta il tentativo disperato di passare una frontiera, in pieno agosto, in mezzo a zone quasi desertiche, da parte di tre uomini in fuga dalla Palestina occupata e all’inseguimento di un futuro un po’ più dignitoso da assicurare a sé e alle proprie famiglie. Si tratta della frontiera tra Iraq e Kuwait, nei pressi di Basra (Bassora), in quella zona in cui le acque di Tigri e Eufrate proseguono ormai congiunte verso il Golfo Persico attraverso un esteso braccio d’acqua noto con il nome diShattel-‘Arab. Il romanzo racconta delle contrattazioni intavolate da tre palestinesi (Abu Qais, Asad e Marwàn) con uomini senza scrupoli che vendono loro la possibilità di passare in Kuwait da clandestini. E che, lo sanno gli stessi clandestini, con ogni probabilità li abbandoneranno in mezzo al deserto. L’esito è tragico: i tre faranno la fine dei topi, cotti a vivo dal sole incandescente nel chiuso di un’autocisterna vuota d’acqua in cui erano stati nascosti. Verranno così abbandonati di notte per strada, vicino a un deposito di spazzatura, proprio come può accadere nel Canale di Sicilia ai migranti di oggi, che muoiono per il sole e per la sete e i cui corpi vengono buttati fuori dai barconi a gonfiarsi d’acqua.

Uomini sotto il sole è libro essenziale e potente, di un realismo asciutto ma che ha una sua particolare capacità evocativa. È davvero il racconto/paradigma di una immane catastrofe, molto al di là delle vicende storiche dei palestinesi a cui il libro si riferisce: oltre a una catastrofe già consumata, insomma, ne sa raccontare tante altre a venire. Ma se è inevitabile che rievochi fatti realmente avvenuti e che continuano a ripetersi ancora oggi in aree geografiche contigue a quelle del romanzo, a leggerlo vengono anche in mente libri del tutto estranei, per geografia per lingua e per vicende narrate, al contesto arabo. Nella prefazione all’edizione italiana Vincenzo Consolo accostava ad esempio Kanafani a Hemingway, Faulkner o Steinbeck, penso per la sua capacità di collocare le vicende narrative nel cuore della Storia e dei maggiori conflitti politici che la attraversano. A me, invece, il libro ha ricordato soprattutto quei bellissimi racconti di Juan Rulfo raccolti in un volume dal titolo La pianura in fiamme.

È un accostamento molto opinabile, e forse del tutto incongruo, e appunto per questo particolarmente utile a farci su qualche buona pensata.

È innanzi tutto il titolo a stabilire una parentela tra i due libri. L’arida pianura dei racconti di Rulfo è in fiamme per l’arsura del clima e perché incendiata da una sorda violenza, della cui origine non si riesce nemmeno a recuperare memoria ma che pervade tanto le relazioni intime e private dei protagonisti quanto quelle pubbliche. Una violenza che sembra impastata con la terra stessa che gli uomini di Rulfo calpestano. I personaggi di Juan Rulfo sono eterni camminanti, quasi tutti uomini in fuga. Per lo più a causa di un crimine privato commesso o subito. Anche i personaggi di Rulfo attraversano terreni ostili, bruciati dal sole, spazzati da un vento asciutto, tra sterpi secchi e massi polverosi, di notte o di giorno, alla ricerca di una via di salvezza che è sempre irraggiungibile. Hanno dentro quella fibrillazione disperata che è propria degli animali braccati, ormai chiusi in un angolo, definitivamente in trappola.

E in una trappola vanno proprio a finire gli uomini di Kanafani, sotto il sole di quell’altra regione semidesertica, a mezzogiorno, in pieno agosto. Anche in questo caso c’è una pianura in fiamme per clima e violenza. Solo che qui la violenza ha una radice storica. Se ne possiede una memoria chiara e sarebbe (o sarebbe stata) perfino evitabile. Non è ancestrale e cieca, come avviene in Juan Rulfo (talmente cieca e ambigua da tollerare perfino che si travesta, in alcuni tra i più bei racconti dello scrittore messicano, di un’ironia beffarda). In Kafanani inoltre la violenza non è impastata alla terra: piuttosto la invade sopraggiungendo dall’esterno, e viene a inaridirla.

In Uomini sotto il sole le vicende che narrano il tentativo di passare la frontiera vengono interpolate da continui flashback: inserti con qualche lirismo che raccontano vicende appartenenti al passato dei protagonisti. Al centro di questi brani di memoria c’è quasi sempre la Palestina, i vicini di casa, il paese di origine, le famiglie abbandonate. Qui la perdita si può nominare. La violenza arriva a sconvolgere le vite ma non è stata cercata. Nel ricordo dei protagonisti la terra d’origine non significa agonia e sangue, ma ha l’odore buono delle mogli, “di una donna che si era appena lavata con acqua fresca e che gli accosta i capelli ancora umidi, coprendogli il viso”.

Il pericolo a cui va incontro ogni profugo è incastrarsi nel ricordo della propria terra perduta in una prolungata attesa che paralizza. Ed è quello di cui si accorge a un certo punto uno dei tre uomini, Abu Qais, quando decide di tentare l’avventura verso il Kuwait: “Negli ultimi dieci anni non hai fatto altro che aspettare. Ti ci sono voluti dieci lunghi anni di fame per capire che hai perduto i tuoi alberi, la tua casa, la tua giovinezza e tutto il villaggio. In questi lunghi anni la gente è andata avanti per la sua strada, mentre tu te ne stavi accovacciato come un cane in una casa miserabile. Che ti aspettavi? Che piovesse giù la ricchezza dal tetto? Casa tua? Ma quale casa tua? Un uomo generoso ti aveva detto: «Abita qui!». E dopo un anno: « Dammi metà della stanza», così hai appeso qualche sacco rattoppato tra te e i nuovi vicini. E sei rimasto accovacciato finché non è arrivato Sa’d e ha cominciato a scuoterti come si scuote il latte per fare il burro”.

Sa’d è uno di quelli che è riuscito a scappare in Kuwait e lì ha fatto fortuna. È uno di quelli che al ritorno ostentano la ricchezza acquisita contribuendo a creare il mito di un paese straniero per raggiungere il quale vale la pena affrontare qualsiasi tipo di rischio. Così, al confine, lungo lo Shattel-Arab, prima di prendere a piene mani il coraggio e provare a passare di là con qualsiasi mezzo disponibile, Abu Qais si ritrova a immaginare quell’eden di ricchezza che il Kuwait rappresenta per questi uomini. Ma è un ideale senza speranze e privo di reale forza di desiderio. Simbolicamente, sono gli alberi, quelli che gli sono stati sottratti, a rappresentare la pienezza dell’appartenenza. E il Kuwait ne è del tutto privo: “Al di là di quello Shatt, appena più in là, c’erano tutte le cose di cui era stato privato. Laggiù c’era il Kuwait… Là esisteva tutto ciò che nella sua mente era solo sogno e fantasia. Indubbiamente, laggiù esistevano cose reali fatte di pietra, di terra, di acqua e di cielo, non come quelle che gli passavano per la sua povera testa… Ci dovevano essere certo vicoli e strade, uomini e donne, e bambini che correvano tra gli alberi… No, no, alberi non ce n’erano. Sa’d, l’amico emigrato laggiù, che aveva lavorato da autista ed era tornato con soldi a palate, diceva che laggiù alberi non ce n’erano. Gli alberi stanno nella tua testa, Abu Qais, nella tua testa vecchia e stanca”.

L’uso simbolico di elementi legati alla terra e al clima (l’aridità del paesaggio, l’umidità della terra/sposa, gli alberi) sembra da sempre strutturare i racconti, in questa porzione di mondo attraversato nei secoli da mille conflitti. Le storie sembrano segnate sul territorio e attraversando il territorio non puoi che ascoltare storie. Così, l’immagine della terra-sposa i cui capelli bagnati di acqua coprono il viso dell’uomo palestinese, posta proprio in apertura di Uomini sotto il sole, potrebbe essere la traduzione letteraria e poetica di una rivendicazione territoriale: di una terra che era sposa a quel popolo, in un legame reso sacro da un vincolo cerimoniale.

Essendo un lettore per null aaddentro a vicende mediorientali non voglio spingermi troppo in là con le considerazioni. Ma l’immagine della terra-sposa di Kanafani mi ha ricordato, per contrappasso, lo stretto legame che intercorre tra territorio e narrazione in libri sacri come l’Antico Testamento. Ne sembra quasi una risposta per le rime. Ad esempio a quel salmo famoso, il 132, in cui dell’unguento profumato scende dal capo di Aronne fino alla barba e poi all’orlo della sua veste. Come la rugiada del Monte Hermon sui monti di Sion, specifica il salmo. Che sarebbe da interpretare, secondo quanto mi aveva suggerito una volta uno studioso di cose bibliche che conduceva me e un gruppo di altri ragazzi (quando ancora eravamo ragazzi) in giro per la Palestina, proprio in chiave geopolitica. In quanto l’Hermon è il monte da cui nasce uno degli affluenti principali del fiume Giordano, che scende lungo la terra promessa come sulla barba di Aronne fino a giù, fino alla veste, irrorandola e inondandola di profumi, e dunque rendendola fertile.

Viene così in mente il ruolo che il controllo delle acque ha avuto nelle guerre arabo-israeliane, che per buona parte sono state anche guerre per la conquista e il controllo delle sorgenti che garantiscono l’irrigazione delle terre poste a valle. E la stessa rivendicazione di unità territoriale del popolo israeliano su quella terra irrigata dal fiume sembra quasi radicarsi in un siffatto passo biblico. È come se in questo legame tra narrazione e terra, le storie, anche le più antiche, venissero fatte funzionare nell’attualità in una attribuzione di senso che fa presto, un po’ troppo in fretta, ad assumere significato politico.

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