Un’esplosione, due vittime, una donna che in quel momento era lontana dal luogo della detonazione; donna che è madre di uno dei cadaveri, che “di umano ormai non hanno nulla” (come le dice la polizia) e moglie dell’altro; donna che si lascia trascinare giù per le vie dell’oblio allucinogeno e affronta inizialmente il lutto con una resa disarmata, incredula, stremata; che poi però afferma con certezza di sapere chi sono gli attentatori, e con la stessa certezza predice che non rimarranno impuniti.

Questo è lo scheletro narrativo di Oltre la notte, film brutale e d’impatto, in grado di arrivare allo spettatore in un modo nuovo, diverso, che arriverà a toccare anche coloro che si ritengono ormai immuni a ogni coinvolgimento perché “abituati” a vedere questo tipo di violenza fisica e psicologica su grande schermo.

Katja – interpretata da una splendida Diane Kruger dall’espressione indurita e aggressiva come il taglio registico a cui dà voce – attraversa tre fasi tematiche, in cui il film è suddiviso: ne La famiglia, ovvero la storia di come viene privata del marito, Nuri, ex spacciatore turco, e del figlio, Rocco, il ritmo è lento eppure convulso. La regia non dipana le scene chiaramente, ma le presenta ancora abbozzate, come se non si trattasse di un piano registico dettagliato ma di uno spontaneo susseguirsi di conseguenze dell’attentato, subite passivamente dallo spettatore quanto da Katja.

Eppure da questo film autoprodotto, viscerale, Fatih Akin lascia emergere alcune scene di una bellezza spontanea; in particolare, una scena, ambientata nel bagno della protagonista, mette in scena con una teatralità mai superflua la forza di volontà che spinge Katja a passare alla seconda parte del film: La Giustizia.

Ne La Giustizia si affronta il processo ai due sospettati, che lei aveva predetto essere i colpevoli: l’attentato è di evidente matrice neonazista, mirato a minare la comunità turco-tedesca di Amburgo, e l’evidenza della colpa è tale che il bisogno di questa Giustizia si acuisce spontaneamente tanto in Katja quanto nello spettatore, secondo un processo elementare. E’ quasi ingenua la scontatezza con cui ci si aspetta il totale riconoscimento di uno stato di fatto descritto come inconfutabile. Mentre ne La famiglia Fatih Akin si concentra sul permettere la piena identificazione con la donna, facendo della fotografia il riflesso del suo cupo stato d’animo incattivito, in questa seconda fase fa un passo indietro: pur non abbandonando la soggettività (il volto della Kruger infatti è sempre il più incisivo elemento della composizione), ora il taglio fotografico si fa più regolare, la luce comincia ad avere spazio, la simmetria tipica dei grandi drammi da tribunale prende un poco le redini del turbamento, e la sofferenza pare – per un terzo di film – poter essere placata dalla legalità. Eppure questa divisione così facile tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato avrà vita breve.

Nella terza fase, Il mare, la scena si sposta in una Grecia pulita e semplice, bella forse, ma che appare quasi squallida nella sua totale lontananza dalle tormentose vicende di Amburgo e nella sua inconsapevolezza del dolore della Kruger; in un panorama tranquillo ristagna la colpa della complicità passiva.

E qui, nel mare, questo coagulo di rabbia che costituisce il film, che mischia le sofferenze dei personaggi al vissuto del regista, questo grumo di cattiveria e desiderio di sfogo non riesce più a contenere se stesso. Il bene, che prima pareva così limpidamente lontano dal male, in esso sconfina. La ringkomposition non lascia scampo.

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