Abbiamo visto Sherlock Holmes. Gioco di ombre regia di Guy Ritchie.
E’ il momento dei film natalizi, e come ogni anno giungono sugli schermi una serie di film che definire cinepanettoni o cinepandori (poco arguta distinzione fatta da D’Alatri qualche anno fa per distinguere un suo film con Bonolis da quelli girati da Vanzina o Neri Parenti) è un eufemismo. Esce l’impresentabile e prostatico film con Cristian De Sica, scritto dai Vanzina e diretto da Parenti, esce l’amorfo e fesso E’ arrivata la felicità dove un Pieraccioni quasi quarantasettenne fa ancora l’innamorato ingenuo e quasi casto. Poi c’è il cartoon d’obbligo come Il gatto con gli stivali e quindi, forse il più atteso, sicuramente campione di incassi, Sherlock Holmes. Gioco di ombre. Un film tratto liberamente dal racconto L’ultima avventura in cui compare per la prima volta il famoso Professor Moriarty, che viene descritto da Conan Doyle come un filantropo che in realtà gestisce una vasta organizzazione criminale, contro la quale Holmes ha raccolto abbastanza prove da causarne la fine. Ma la scelta di un regista come Ritchie, modesto realizzatore nonostante qualche successo come Snatch, una specie di rivisitazione di Pulp Fiction e il terribile Travolti dal destino…, remake del film della Wertmuller con sua moglie Madonna, rendono l’operazione una boiata pazzesca.

La leggerezza e l’avventura sono cose nobili e necessitano del tocco alla Spielberg e dei suoi tanti epigoni altrimenti si producono operazioni patafisiche come questa. Prendete Indiana Jones, metteteci il trasformismo di Mission Impossible, una storia alla 007 senza logica narrativa e senza suspance, un po’ di arti marziali Zen e concentrazione metafisica, a questo aggiungete un gusto registico rozzo, egotista e sconclusionato in cui il “contorno” prende il sopravvento sul contenuto ed ecco la miscela. Un’interminabile susseguenza di esplosioni, corse, scazzottate, omicidi, salti nel vuoto, rallenty, ripetizioni di scene di scazzottate che non tornano utili alla storia bensì sono un pretesto, diluito e allungato interminabile.

Holmes è convinto che dietro ad una serie di attentati anarchici, esplodono bombe a Strasburgo e a Vienna, (anarchici, zingari e rivoluzionari vari sono letterariamente da operetta – Ravachol tirato per il cognome nella storia si rivolterà nella tomba), al presunto suicidio del principe d’Austria, allo scandalo che investe un magnate del cotone ci sia lo zampino del boss dei criminali londinesi, il professor Moriarty, docente universitario, intellettuale famoso, amico del Primo Ministro inglese. Holmes però deve partecipare al matrimonio di Watson e sarà costretto poi a strappare l’amico alla luna di miele con Mary salvandoli da morte certa su un treno. Quindi trascina l’amico prima a Parigi, poi in Germania e infine in Svizzera, all’inseguimento del professore che nel frattempo cerca di far uccidere entrambi.
La posta in gioco tra i due è semplicemente non far scoppiare la Prima Guerra Mondiale. In questo inseguimento per l’Europa senza pathos, senza reali colpi di scena – Holmes incontra ben tre volte Moriarty e potrebbe anche eliminarlo se volesse – si inseriscono zingari, anarchici, militari senza scrupoli e umanità varia, anche gemelli monozigoti rifatti in laboratorio.

Il cast è formato da attori di spessore e anche ben amalgamati, tra tutti Robert Downey Jr., bravo anche se un po’ algido e poco empatico, Jude Law, un Watson fuori dagli schemi classici, Stephen Fry, un fratello di Holmes ironico e simpatico, Jared Harris un Moriarty dalla recitazione geometrica, un po’ a parte ed estatica la brava Noomi Rapace. Da segnalare le scenografie, con le ambientazioni suggestive dal camerino della cartomante al castello vampiresco sull’orlo del precipizio.

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