Abbiamo visto “ Stoker “ diretto da Chan-wook Park.

Il cinema coreano è tra le cinematografie più vive e più interessanti in circolazione nell’ultimo quindicennio.  Come abbiamo già scritto, una nouvelle vague sessantottina senza ’68 che ha prodotto molti film innovativi e necessari, con rimandi estetici e culturali proprio al cinema francese dei Godard e degli Chabrol.  Basta citare  “ Pietà “ diretto da Kim Ki Duk, vincitore dell’ultimo Festival di Venezia, e dello stesso autore il picolo capolavoro “ Ferro 3 “; oppure ricordare i film di Im Sang-soo, Chang Dong Lee, Kwon-taek Im.  In questa folta schiera di cineasti si iscrive anche Chan-wook Park, entrato nella storia del Cinema con film come “ Oldboy “, “ Lady Vendetta “ per citare solo quelli che sono passati nelle nostre sale cinematografiche.  Film minimalisti, silenti, con una grande violenza individuale e sociale e con risvolti socio-politici.

Adesso Chan-wook Park gira il primo film in lingua inglese, con attori australiani ( La bravissima  Mia Wasikowska ), inglesi ( Matthew Goode – lo ricordiamo come fidanzato di Scarlett Johansson in “ Match Point “ di Allen ), e statunitensi ( La brava Nicole Kidman, purtroppo porcellanizzata ).  Park in questa uscita da casa porta con sé la sua maestria di regista, bravissimo nel creare il clima ambiguo ( che ci fa venire in mente – forse erroneamente – l’Hitchcock dei primi anni cinquanta, o il corrispettivo coreano di Lynch ) attraverso un montaggio e delle riprese raffinate, tese come una corda.  Ma è anche un film non perfetto nel cuore drammaturgico ( visto da noi europei ), quando lo spettatore deve riflettere sulle ragioni della psiche, del male e del sesso deviato non ci sono risposte, tutto è dato per dato; e non basta far dire alla ragazza: “  Io sono questa. Così come il fiore che non può scegliere il suo colore, noi non siamo responsabili per quello che siamo diventati “.

E’ anche evidente che l’arrivo improvviso dello zio ( Matthew Goode ) al funerale del fratello porta con sé ambiguità pericolose ma troppo esplicite ( è l’unico che sorride, che sembra rilassato e che veste di chiaro ) mentre col tempo filmico resta poco chiaro lo scopo di questo suo agire ( l’infatuazione morbosa per una nipote che non ha mai visto ma che sembra conoscere intimamente )  ma soprattutto l’origine di questa sua devianza criminale che sin da bambino lo ha condizionato.   La vedova-cognata-madre ( Nicole Kidman ) è bravissima nel suo affettato, vacuo e ipocrita atteggiamento ma è anche l’unica ‘ vittima ‘ inconsapevole in una famiglia di lupi.   La protagonista è la giovane India ( Mia Wasikowska ), anch lei si muove nell’ambiguità più assoluta anche se il regista cerca con i silenzi e le ritrosie di una ragazza introversa e ipersensibile di nasconderci il più possibile la sua anima nera, ma le fa dire all’inizio del film: “ Le mie orecchie sentono cose che altri non sentono “, mentre la sua psiche turbata si intreccia a desideri perversi che sembrano farla essere come lo zio.

Il film ha inizio nello stesso giorno in cui India compie diciotto anni e suo padre muore in un incidente d’auto inspiegabile.   Durante il funerale al cimitero, e poi a casa, incontra e conosce lo zio Charlie molto più giovane del padre, di cui lei e sua madre non avevano nemmeno sentito parlare. E chi sa qualcosa di lui fa una brutta fine.  La ragazza si mostra diffidente ed è anche contrariata quando sa che lo zio resterà qualche tempo a casa con loro.  Lo evita mentre invece sua madre, sempre più instabile e fragile, si appoggia a lui.   Ma con il passare dei giorni la ragazza si rende conto di essere attratta ( anche sessualmente ) dallo zio e che poi in fondo hanno un angolo buio della coscienza in comune; e forse questo limite tra bene e male – che lei si è imposta fin ora – lo supera quando scopre nella ghiacciaia nello scantinato il corpo della nonna congelato e coperto da altri surgelati e non dice nulla a nessuno, quasi consapevole di ciò che può succedere.  E a scuola di disegno – dove dei ragazzi la prendono ripetutamente in giro per il suo modo silente e solitario di comportarsi – un giorno ferisce con una matita un compagno particolarmente aggressivo.   E questo forse le fa da stura a comportamenti ancora più pericolosi.

Il film può essere diviso in due parti, nella prima le soluzioni visive sono molto interessanti e originali, tutto sembra che possa accadere e che qualsiasi direzione possa essere presa    improvvisa e credibile, una seconda parte invece – pur molto accurata ma un po’ troppo stilizzata – rientra solo in un buon prodotto fluorescente.   Bello e disperato il finale.

Una mensione speciale alla splendida fotografia di Chung-hoon Chung e alla non meno splendida olonna sonora di Clint Mansell e Philip Glass.

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