Non è stato facile guardare “Still recording” di Saeed Al Bataal e Ghiath Ayoub, premio Fipresci alla Mostra del Cinema di Venezia, esempio imperdibile di cinema neosperimentale. Il film è in questi giorni nelle sale italiane grazie al coraggio imprenditoriale di Reading Bloom e Kama Productions. Non è facile scriverne ora, temendo ora io stessa di tradire il film. In un mondo governato da immagini e parole che doppiano incessantemente la realtà, divenendo esse stesse repertorio istantaneo della nostra memoria individuale, archivio tascabile, verità social, visioni surrogate e spesso scadenti dei nostri percorsi psichici ed emotivi, “Still recording” agisce alla maniera di un film politicamente rivoluzionario. Porta lo spettatore a ragionare e a fare i conti con l’irrappresentabile e a restituirgli una prospettiva universale.

L’orrore del genocidio in Siria è time-lapse, ellissi temporale, taglio. L’immagine, se è “difesa contro il tempo” – dichiara nelle prime scene lo stesso co-regista nonché coprotagonista del film, Saeed – dovrà rinunciare ad essere reportage di guerra, esposizione meccanica degli avvenimenti o didascalia sugli effetti devastanti del conflitto, per dare spazio invece all’assenza. Il dolore può a volte essere un fotogramma nero. Derek Jarman, in un eccesso di iconoclastia, lo dipinse di ‘blu’ nel film dal titolo omonimo. Nel caso di “Still recording”, parente per alcuni versi di “Redacted” di Brian De Palma o “Shoah” di Claude Lanzmann, le riprese sono durate cinque anni per un girato totale di 450 ore ed un montaggio che riduce gli avvenimenti a poco meno di 2 ore, veloci sullo schermo, ma indelebili.

In inglese si usa il termine “cut”. Questo taglio, se non generato dal regista, viene eseguito dal montatore. In “Still recording”, Saeed – nelle ore più gravi della sua vita – spegne più o meno consapevolmente la telecamera. Seduto al computer, poche ore dopo l’attacco chimico di gas sarin a Ghouta Est, nei sobborghi di Damasco, che – la cronaca racconta – uccise circa 1500 civili oltre a numerosi feriti, scrive davanti alla camera fissa: “Nessuno si salva dal massacro, tranne i morti. In quelle ore disperate, perché non ho fotografato? Forse perché avevo già visto così tante telecamere accalcarsi intorno alla tragedia”. In effetti, chi ha seguito la tragedia di quel dannato 21 agosto 2013, ha potuto vedere le immagini a cui il regista si riferisce. Soffermandoci per un attimo al resoconto giornalistico dei fatti, sappiamo oggi che almeno 106 attacchi aerei sono stati portati avanti dalle truppe di Assad con agenti chimici da allora ad oggi. Ma i numeri – avvertono i report della Nazioni Unite – potrebbero essere superiori. La morte atroce a cui porta il gas Sarin è ampiamente documentata, tanto che il diritto internazionale ne proibisce tassativamente l’uso. Pochissimi di questi attacchi sono stati riportati dai giornali internazionali. In questi ultimi anni è calato un silenzio stampa grave sul genocidio siriano, un paese a una manciata di ore d’aereo dal nostro e che affaccia sul nostro stesso mare. La stampa deve continuare a fare la sua parte. Il cinema fa altro. Il cinema prova a rivelare. Ed è ciò che “Still recording” riesce a fare, partendo da immagini a prima vista cliché – le riprese dei cecchini sono in tutto simili ai video di guerra che siamo abituati a vedere sulle varie piattaforme, Youtube tra tutte – e via via sottraendo passaggi del conflitto armato per suggerire raccordi segreti, inaccessibili alla vista, accessibilissimi con la sensibilità e l’intelligenza di chi guarda. Si impone allora la vita, il dovere dell’impegno civile, la rivoluzione progressiva delle coscienze individuali e collettive, la ricerca disperata della libertà, l’amicizia, la liberazione dalla paura, pur tra le macerie. Il sacro bene in eterna lotta con l’umiliazione, la fame, la povertà, i MiG, il logorio fisico, la depressione. Nulla è consolatorio. L’atleta corre sotto tra le macerie. Milad, l’amico artista di Saeed, dipinge, scolpisce, colora le mura della città con frasi come “Non riconciliatevi, alcune cose non sono in vendita” o “sii paziente, terra mia”. Milaad colora di bianco il ‘cine-occhio’ sempre acceso dell’amico Saeed.

Lo stesso titolo del film ci aveva già messo in guardia: “still recording” significa che la videocamera sta ancora registrando e non si fermerà fino se non premiamo il pulsante off. Ma la guerra stravolge tutto. Anche quel minimo gesto del pollice non è scontato. Dovrà necessariamente essere l’uomo a dare il valore di testimonianza a quello che la videocamera ha ripreso. Un film speciale, un piccolo capolavoro.

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