La cravatta rossa

Siamo sulla spiaggia comunale di Castelporziano, cancello numero nove, dove un palco enorme di quaranta metri per dieci si alza contro il mare, lambito dalle onde della debole risacca notturna. Sotto (è alto circa un metro sul livello della spiaggia) dormono una quarantina di ragazzi, sacco a pelo e camicie e giubbe sgargianti, o logore oltre misura. Qualcuno ha acceso un falò poco distante, e si passano manoscritti o lattine di birra… Il Festival dei poeti è cominciato così, una vigilia inquieta, con molta preoccupazione, qualche perfidia e tutti i partecipanti dispersi tra Ostia, Castelporziano, la spiaggia e lo spettrale albergo Enalc, dove sono alloggiati.

L’Enalc è una scuola alberghiera abbandonata da tre anni, ora piena di poeti e di cani molto brutti e molto buoni, tranquillamente addormentati, nella loro cronica denutrizione, sulle poltrone di una hall già toccata dalle stigmate della decadenza. A metà Marienbad e a metà Katmandu, il festival si è subito rivelato essere qualcosa che si trasforma e inganna, qualcosa di misterioso e caotico, somma di volontà potenti e dissipatrici. Qui, l’assessore alla cultura, il comunista Renato Nicolini, è la faccia nuova, con i suoi calzoni sdruciti e le cravatte rosse, le foto sui rotocalchi e l’inseparabile flauto. Questa volta ha dato subito credito a Simone Carella e Ulisse Benedetti, gli uomini del Beat 72 – il teatro che nel giro di due mesi ha anticipato i milioni per scrivere e telefonare a russi e americani, prenotare un biglietto d’aereo e farli venire a Roma.

Così, sono arrivati tutti quanti, da Ginsberg a Burroughs, da Corso a Ferlinghetti, i santoni della beat generation, invecchiati, appesantiti, ma sempre, almeno apparentemente, euforici… E i ragazzi e le ragazze che si sono addormentati sotto il palco, arrotolando sigarette, con le loro divise casuali, sono venuti tutti per loro, inseguendo il sogno di una stagione fantastica e quasi intramontabile.

Gli americani lo sanno, sanno di essere loro le stars, e non lo nascondono. Saranno con tutta probabilità i dominatori del festival perché sono anche gli unici che abbiano fatto esperienza di vagabondaggio, gli unici beat della situazione, quelli che ridono, gridano, si danno grandi botte sulle spalle, non disdegnano l’hascisc e hanno, a cinquanta, sessant’anni, le mogli giovani e i figli piccoli. Sono gli unici nella leggenda.

La tua opera sei tu

Ferlinghetti ci ricorda quando intorno alla sua libreria c’erano gli immigrati italiani, e adesso ci sono solo i cinesi, perché intanto gli italiani sono diventati middle class e hanno cambiato quartiere e casa… Siamo tutti a cena, in un ristorante di Ostia. Grandi risate e caldo, Fernanda Pivano filtra quasi ogni frase, da qualunque parte arrivi, un giovane poeta italiano ha cominciato a chiacchierare con Gregory Corso, che mostra un gran buco in mezzo ai denti.

Mentre stava centellinando, quasi schifato, un piatto di gamberi, Burroughs ha gelato il poeta irlandese Desmond O’Grady, l’unico che sa tutto sulla quotidianità di Joyce e Beckett a Dublino, caffettano palestinese addosso e troppe birre nello stomaco, che gli gridava da lontano: «Ti ho visto a New York, a Parigi, ho visto i tuoi amici, siamo stati bene insieme, ti ricordi?». «Sì, mi ricordo di te» è stata la gelida risposta dell’anziano signore che ora insegna nelle università: uno sguardo con i suoi occhi mansueti, d’una froideur mitica, e poi di nuovo i gamberi… O’Grady ha dovuto ripiegare e accontentarsi di baciare Corso, che ha una camicia rossa ma ha anche molti capelli grigi.

La festa così l’hanno fatta i freak arrivati a Ostia fiutando poesia: davanti all’albergo l’inaugurazione è toccata ad un tizio barbuto e tracagnotto che ha condotto una sua personale e lirica arringa all’indirizzo di Simone Carella: «Simone, ho fame. Ma che russi, ma che americani, che io sono disgraziato e non ho mangiato…». Poi, un lungo componimento basato sull’iterazione anamorfica di un popolare affanculo. Come lui, ne sono venuti tanti, e hanno invaso la costa tra Ostia e Castelporziano.

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