I filosofi bugiardi mentono deliberatamente? I filosofi bugiardi, che ossimoro è mai questo, dal momento che si suppone che il filosofo, amando la sapienza, non potrà che amare anche la verità? E poi, che cosa significa quell’avverbio «deliberatamente», con intenzione? Mentono sapendo di mentire, proprio i filosofi? E nel farlo, quali logiche inventive seguiranno mai?

Lo scarto tra produzione teorica e vita

Analizzarle le logiche inventive del pensiero teorico è lo scopo che si propone un saggio denso, corposo, intrigante ma tutt’altro che facile, di François Noudelmann, stella anche mediatica del firmamento filosofico francese, docente all’Università Paris VIII e alla New York University: Il genio della menzogna. I filosofi sono dei gran bugiardi?, Milano, R. Cortina, 2018, pp. 248. Ed. orig. Le génie du mensonge, Max Milo 2015, pp. 329. Noudelmann vi esamina lo scarto tra produzione teorica e vita: come mai Rousseau, che scrive un grandioso e innovativo trattato sull’educazione, Emilio (1762), ha abbandonato al brefotrofio non uno ma cinque figli avuti con Thérèse Levasseur? E come potè la pensatrice Simone de Beauvoir scrivere una delle opere chiave del femminismo del Novecento, Il secondo sesso (1949), e desiderare di vivere da serva docile e sottomessa il suo amore con lo scrittore americano Nelson Algren, con il quale ebbe una storia di grande passione e straordinaria intensità? E come la mettiamo con Kierkegaard e il suo elogio del matrimonio, composto senza ch’egli fosse riuscito a sposare Regine Olsen nonostante il suo dichiarato amore per la suddetta, e com’è che il filosofo dell’impegno, Sartre, riuscì a mancare all’appuntamento con la resistenza, o il filosofo del nomadismo, Deleuze, a passare la vita a fumare in poltrona in un appartamento parigino? E Foucault, come faceva a esaltare il coraggio della verità, nelle sue ultime opere, e poi a nascondere accuratamente il fatto di avere l’AIDS? Tutte domande che chi frequenta la filosofia si è posto in vita sua, a partire dall’eclatante e incomprensibile caso Rousseau, salvo considerarle ingenue e non rilevanti dal momento che, riguardando la vita e non le astratte speculazioni intellettuali contenute nelle opere dei filosofi, non vanno a inficiare la teoria.

 

 

A causa dell’incoerenza, non nonostante essa

E invece il punto sta proprio lì, dichiara Noudelmann, nel fatto che i filosofi, alcuni filosofi, che fanno uso di astrazioni e rivendicano l’universalità del loro pensiero, mostrano in alcuni casi clamorosi di contraddirle col loro stile di vita. Ci furono invece filosofi che vissero una genuina armonia tra idee e comportamenti: tra tutti uno dei casi più coerenti, fu quello di Diogene di Sinope, il campione del cinismo antico, che condusse una «vita semplice» basata sulla coerenza di prese di posizione individuali, i cui segni inconfondibili sono l’autonomia, l’incorruttibilità, l’autoconsapevolezza e il coraggio civile nonché la parresia, cioè la parola franca, cosciente, aperta e senza censura, talvolta anche irrispettosa e aggressiva. Paradossalmente, proprio uno dei campioni del mentire-vero, Foucault, dedica una parte del seminario sul coraggio della verità ai cinici, questi «esibizionisti della verità»; cosa che Foucault non fu. Foucault infatti arrichisce, nella classificazione di Noudelmann, la schiera dei filosofi incoerenti, chiamiamoli così, al cui comportamento viene data una spiegazione provocatoria e stimolante: il filosofo (Rousseau o Deleuze o De Beauvoir che sia) elabora i suoi principi teorici perché vive il contrario di ciò che teorizza. Il filosofo, continua Noudelmann, presenta una verità antinomica rispetto a ciò che vive in quanto il diniego produce l’altissima performance concettuale. Ora la tesi, alquanto trasgressiva, è intrigante e ha fatto gridare alla genialità del filosofo che la propone: ma è sostenuta, argomentata, dimostrata in maniera convincente, o anche soltanto attraente e presumibilmente persuasiva, giacché alla filosofia non si richiedono gli stessi parametri delle scienze esatte?

 

Il pilpul filosofico-politico

Nella discordia tra ciò che viene vissuto e ciò che viene affermato, nello scarto tra il discorso teorico e la vita vissuta giace la potenza creativa: così, almeno nei filosofi citati, la menzogna diventa creazione di verità. L’argomento porta a chiedersi subito se qui si stia parlando di verità o del dire la verità (sincerità dunque, o parresia nel linguaggio di Diogene e di Foucault, truthfulness nella terminologia di Bernard Williams). Spesso infatti, nel testo di Noudelmann, il concetto di verità e quello di sincerità, «parola splendida e terribile», come la definisce Andrea Tagliapietra nel suo Sincerità (Milano, R. Cortina, 2012), si sovrappongono e si confondono, e forse proprio questa mancanza di cesura netta è ciò che giova alla tesi: il filosofo sa di dire una cosa falsa, inganna con cognizione e allora mente; oppure lo ignora, e allora può continuare a dire la verità pur mentendo, o proprio perché mente. La sensazione che si ha infatti leggendo questo saggio tormentato, opera di un professionista di ampie vedute e che si occupa non di autori che ha in disistima e che gode a dileggiare, bensì di filosofi da lui amatissimi, è che esso mostri una incapacità, sofferta, ad argomentare la tesi. Il fatto è che Noudelmann torna e ritorna sulle argomentazioni e spiegazioni, talvolta con parole diverse talvolta con le stesse, ripetendo continuamente la tesi come se questo bastasse a rafforzarla, in un continuo girare e rigirare sulla questione e componendo una sorta di «pilpul filosofico», un tentativo di sciogliere contraddizioni insolubili muovendosi sui confini di ciò che è pensabile e spiegabile (il pilpul è un metodo di studio del Talmud che cerca di chiarire tramite analisi e differenziazioni tutti gli aspetti e le tematiche di un punto. Si usa anche come sinonimo di cavilloso, bizantino).

 

Le spiegazioni di Noudelmann girano e rigirano in un discorso circolare che talora assorbe nuovi argomenti da altre discipline, come la diagnosi di personalità multipla, presa in prestito dalla diagnostica delle malattie mentali, per alcuni pensatori incoerenti, ma fallisce la disamina precisa e puntuale che chiede di rispondere a come sia possibile che il discorso del filosofo parta da un comportamento opposto al pensiero stesso; o come possa darsi che il filosofo elabori pensieri teorici astratti perché vive il contrario di ciò che teorizza presentando una verità antinomica ai fatti che vive. Non è che continuando a ritornare sull’affermazione secondo la quale il diniego produce nei filosofi (quali? perché proprio quei filosofi e non altri?) la performance concettuale, essa viene a costituire una verità.

 

La menzogna speculativa

Del resto, immaginare di eleggere kantianamente la pratica della menzogna, seppur creativa, a massima universale, porterebbe a un mondo di pazzi nel quale sarebbe impossibile vivere. Senza un minimo di fiducia nel fatto che persone e istituzioni non mentiranno, non avrebbe senso neanche alzarsi la mattina perché non saprò se troverò l’acqua in bagno o l’autobus per andare al lavoro alla fermata. Ma nemmeno vogliamo fare i moralisti intransigenti e bacchettoni che esortino in termini roboanti alla verità e alla coerenza a tutti i costi, esaltando un mondo ideale nel quale nessuno racconti con decenza qualche fandonia, nessuno spettegoli un po’, nessuno usi ironia e cinismo ma tutti parlino soltanto apertamente e si comportino con totale lealtà e franchezza e fedeltà alla causa della verità, senza mai recedere dalle loro opinioni e avanzando a testa alta e a petto nudo, perché in un mondo così, cui sia negato sempre il sottile piacere del mentire o la tragica necessità di doverlo fare per evitare mali maggiori, non ci piacerebbe vivere.

Se però la negazione del vero fattuale denuncia la difficoltà del filosofo nel farsene carico (questo deve valere per altri ma non è valso per me), potremo comprenderlo e forse anche giustificarlo. A tutti loro Noudelmann offre la scusa della «menzogna speculativa». Non potendo confessare e ammettere la verità essa viene espressa come iperbole concettuale, metamorfosi della verità in forma di menzogna, in perfetta assonanza con la pratica della non- o postverità praticata ai nostri giorni mendaci. Non basta tuttavia ripetere continuamente, francamente e sinceramente una tesi perché essa diventi vera. Bisogna spiegare con quali passaggi e meccanismi la teoria dell’impegno sia costruita sulla mancanza dell’impegno, come se questo le desse una marcia in più che se fosse costruita sull’impegno reale.

Quello che avrei voluto essere e non sono

Stretta la foglia, larga la via, suggestiva è l’intuizione ma debole l’argomentazione. Reggerà la tesi? O non ci porterà a rovesciare le parole di Paolo, «lo spirito è forte ma la carne è debole», facendo sì che lo spirito aletico, invece di uscire rafforzato dalla debolezza della carne menzognera, ne acquisisca l’ambiguità vedendo minata la propria credibilità? Il che vorrebbe dire che ha ragione tutto sommato l’argomento moralista che afferma che gli autori scrissero grandi opere dello spirito nonostante la piccineria della carne. O ancora, e concludo, che scrissero grandi opere profetiche che andavano oltre la pusillanimità del quotidiano perché il loro sguardo era rivolto a un futuro magnanimo. Il divario tra teoria e pratica continua a rimanere un enigma, ma non c’è che da ringraziare Noudelmann per averci fatto pensare sul tema in maniera acuta e mirata. Il filosofo, alla fine, crea il personaggio che avrebbe voluto essere e non è. A meno che non ritenga il suo un discorso di tipo scientifico che dopo dimostrazione rigorosa non potrà venire smentito perché non dichiara una verità ma la verità. Come per Galileo davanti al tribunale dell’Inquisizione: che si abiuri o no, si menta o si dica la verità, si mandino i figli all’ospizio o li si allevino amorosamente in casa, la terra continuerà a girare intorno al sole.

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